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MILLE PENSIERI PER GIANNI


Antologia Critica

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Ugo Piscopo
TESTO DI UGO PISCOPO PRESENTE SUL VOLUME “L'IMMAGINARIO GEOMETRICO“ CURATO DA LUIGI PAOLO FINIZIO SUL GRUPPO GEOMETRIA E RICERCA -1979 ED.IGEI NAPOLI

De Tora tra protesta e progetto

 

De Tora appartiene alla schiera degli esclusi dal mondo, da un mondo inquinato dalla violenza e dalle prevaricazioni istituzionalizzate. Perciò s’inventa altre dimensioni più possibili o forse più impossibili, praticabili con la mediazione di un intelletto che « scopre » in senso picassiano gli oggetti e i rapporti fra i medesimi.

In un primo momento della sua attività, De Tora pretendeva di prendere contatto con la realtà sul filo di un’evocazione regressiva, che lo riportava a figure e a colori essenziali dell’infanzia, adeguata tout court con una natura non ancora sconvolta dal macchinismo industriale nè invasa dai rifiuti non biodegradabili del cosiddetto «benessere».

L’esito era però d’obbligo nella ricostruzione e nello studio delle forme, più che in una gratificazione esistenziale: l’ipotesi dello sbocco nell'esistente o meglio in ciò che la memoria accarezzava come esistito realmente si andava rovesciando in quella di un nuovo inquadramento, di una ricostruzione di un altro ordine di segni, autonomi, preesistenti, antichi.

De Tora così scopre la via metamorfica che porta dalla protesta e dal rifiuto alla comunicazione, non dei rozzi contenuti dello scacco personale o della dilacerazione, ma del modo di rompere con un mondo e del connesso modo di ritrovarne un altro, per simboli, per frammenti, per cadenze e momenti. Così si rende conto che quanto più sottopone ad esame i reperti memoriali, quanto più li confronta fra di loro per estrarne gli schemi archetipici, quanto più si avvicina alla struttura, che egli sospetta perentoriamente geometrica, fondata su un codice di triangoli, di cerchi, di quadrati e comunque di forme elementari e inconfondibili, tanto più mette d’accordo la mitologia della sua coscienza con il progetto d’invenzione di un nuovo linguaggio, di una nuova natura, di un nuovo ordine sociale, razionalmente motivato.

Geometria, quindi, come utopia, che è tanto più utopia quanto più è geometria, ovvero misura di una terra dell’uomo, liberata dai condizionamenti della visceralità, del sadismo, del potere, una terra aperta a tutti, se infatti ognuno è soggiogato al fascino della limpidezza e della definitività, che intanto si veicolano attraverso il contaminato e il provvisorio, spesso tra loro coniugati. Ma aperta soprattutto al piacere di cogliere e proporre analogie tra esperienze quotidiane ed esperienze metatemporali, ad esempio fra le variazioni delle luci del sole e i mutamenti di cifra, sia pure quasi impercettibili, delle forme nella loro ascensione verso l’idea fondamentale o nella rispettiva discesa dal sopramondo ideale verso l’incompiuto, verso l’incerto, verso uno stadio connotato dalla fluidità e dalla reversibilità.

TESTO DI UGO PISCOPO PRESENTATO IN OCCASIONE DELLA MOSTRA PERSONALE ALLA GALLERIA PICA NEL 2006 E RIPROPOSTO NELLA CARTELLA D'ARTISTA NEL 2013/2014 IN OCCASIONE DELLA MOSTRA ITINERANTE-ANTOLOGICA “TERRITORIO INDETERMINATO”

GIANNI DE TORA I LOVE LEONARDO-

Le geometrie fanno all’amore

 

Come hanno messo a nudo i surrealisti, anche i numeri fanno all’amore, hanno simpatie e antipatie fra di loro, non possono sottrarsi a richiami profondi per giochi e avventure imprevedibili che li trascinano in gorghi vertiginosi e in situazioni irreversibilmente compromettenti.

Ad analoghe corrispondenze d’amorosi sensi sembrano esposte le geometrie che da oltre trent’anni Gianni De Tora inquisisce come materiale linguistico ed espressivo per la rappresentazione, o, meglio, per la costruzione di un nuovo universo, che è innanzitutto suo, cioè dell’artista, ma che è ipotizzato come lo specchio della modernità, di una modernità dove tecnica e creatività artistica possono, devono andare a braccetto nell’interesse universale, cioè per un’uscita dalla babilonia della contemporaneità e dai rischi avvolgenti dell’entropia.

E’ sul filo, dunque, del rasoio di un calcolo progettante che si muove la mimesi di De Tora, impegnata anche a coniugare l’imminenza ineludibile del futuro con le incalzanti richieste di risarcimento prodotte da un passato niente affatto pacificato o disponibile all’archiviazione. E queste ricerche di pareggiamenti e di dialoghi nei carrefour clamorosi e assordanti del presente tra forme irrefutabili di lontananze, che si chiamano e si cercano allo spasimo, l’artista le affida a figure, quali quelle geometriche, che simultaneamente mettono in circolo l’arcaicità nell’efficientismo rigoroso delle moderne tecnologie e viceversa. Che cosa, infatti, vi è di più stringente sui versanti linguistico e simbolico delle figure geometriche per attraversamenti e trasfert dalla primordialità alla nostalgia del futuro assunta e scandita sotto forme e per articolazioni meccaniche e automatiche? In esse, è il passato che ritorna con i suoi enigmi, con i suoi crittogrammi basici, o è il futuro che riscopre l’indistruttibile, la perenne attualità di un alfabeto che transita attraverso le culture e le epoche come aprioristica condizione per la relazionalità col mondo, sui terreni della cognitività e della espressività?

Le figure geometriche, però, sono interrogate e adoperate dall’artista, certamente secondo un orizzonte di attesa complessivo di collaborazione a cercare varchi per il complicato e scompensato nostro mondo contemporaneo alla speranza sostenibile innanzitutto da calcoli della ragione dialettica, ma anche con cedevolezza ai colori del tempo, al declinarsi delle stagioni. De Tora, così, consegue un duplice risultato positivo, mantenendo fede a un’opzione fondamentale di concretismo geometrico fatta sulla fine degli anni sessanta e confermata nel corso dei fermentanti anni settanta del secolo scorso e insieme svolgendo in proprio un discorso mai pregiudizialmente bloccato su formule risolutive e definitive. E’, questa, naturalmente una posizione, che merita ammirazione ed elogio sul piano ideale, ma che è duramente fatta pagare all’interessato da un contesto cinicamente costituito su olistici processi di reificazione dei prodotti (materiali e ideali) e sulle oscillazioni del gusto strumentali al potenziamento del mercato.

A me personalmente, però, la partecipazione al movimento concretista e il serio e duraturo radicamento in esso di De Tora, se risultano cospicui e significativi, non appaiono così interessanti come lo stile elaborato dall’artista nel corso del tempo di interpretazione di quei canoni e di mimesi della condizione di vita straniata e straniante del mondo contemporaneo. Perché, non solo nel caso di De Tora, ma sempre, la lettura critica della/e vicenda/e di un artista, non può non tener conto dei progetti (che una volta si chiamavano “le poetiche”) e delle griglie ideali su cui il singolo operatore appoggia il suo fare, ma non può limitare la sua attenzione a questo solo ambito, che pertiene alle ideologie e un po’ anche all’antropologia, e riguarda marginalmente e ancillarmente il discorso sull’arte. La quale, invece, va cercata nei modi genuini e peculiari con cui si risponde alle intenzioni dell’arte, - e si sa che tra il dire e il fare ci può essere di mezzo il mare.

Per entrare nei segreti della poiesi di Gianni De Tora, occorre procedere à rebours, partendo dalla sua ultima produzione. Sul conto della quale, si registra pressoché totale concordia tra i critici nel ravvisare e nel sottolineare un acuirsi da parte dell’artista dell’ascolto del profondo, delle dimensioni impalpabili e inquietanti, dell’alterità.

Questo atteggiamento è sembrato maturarsi e nettamente esprimersi nel corso degli anni novanta, che era anche l’ultimo decennio di un secolo e di un millennio tumultuosi e drammatici e che nella sua curvatura di fine di una sequenza cronologica non poteva non indurre fisiologicamente effetti di malinconico ripiegamento esistenziale e pensieri sulla fine di un mondo/del mondo (come forse non inopportunamente si può adattare l’assunzione di Derrida secondo cui l’esperienza di una fine è l’esperienza della fine).

In un affettuoso componimento poetico, uno dei suoi ultimi, Pierre Restany, ad esempio, intercetta nella più recente fase di attività di De Tora la proiezione a “vivere il visivo senza fondo”, proiezione che si manifesta attraverso un’immateriale presenza di “spettri gestuali” che “incrinano la gravida maestà / dei triangoli inversati” e attraverso lo scatenamento del “virus dell’ironia” che agisce da “anticorpo della logica discorsiva”. Gillo Dorfles, più familiarmente, rileva nel 1998 nelle ultime geometrie, che vogliono essere quasi architettoniche di De Tora “un’apertura verso l’indeterminatezza e l’asimmetria”, una specie di via “più pronta ad adeguarsi all’epoca – così drammatica e poco equilibrata – in cui viviamo”. E su questo medesimo asse di lettura si dispongono altri interventi, come quello di Giorgio Agnisola, sempre del 1998, che parla di uno sguardo rivolto verso “una sorta di finestra su di un universo nuovo, una dimensione oltre”, o come quello di Vitaliano Corbi del 2003 per la grande mostra a Castel Nuovo dedicato, con estrema finezza, alla “dolce angoscia” delle geometrie, o come quello rigorosamente argomentato di Mario Costa.

In realtà, l’attenzione per l’oltre o per l’alterità, se nell’ultima produzione acquista visibilità e suggestione quasi incalzante, se non incombente, lievita anche agli inizi del concretismo geometrico di De Tora, se Del Guercio nel 1970 può fissare la sua osservazione su un messaggio sospeso nelle sue geometrie “nella tensione fra fantasticheria spaziale e dolente realtà terrena”. Se io stesso, nel 1979, in una nota assumevo come centrale la cifra dell’utopia, che nelle sue interfacce registrava l’impossibilità del possibile del progetto e il rischio del crollo dell’azzardo su uno sfondo oscuramente inquietante.

In sostanza, il concretismo geometrico di De Tora è stato sempre un’arma a doppio taglio: di qua la diurnità della ragione, di là la notturnità del conturbante (sempre suggerito, mai nominato o chiamato in scena).

Questo muoversi di De Tora come sulla soglia, che mette in comunicazione fra loro due universi complementari, ma non omologhi, risulta decisivo nelle opere di questa mostra. Le quali, va sottolineato, appartengono all’ultimo decennio del secolo scorso e ne assorbono, anche se forse inconsapevolmente, lo Zeitgeist, ma tuttavia aprono squarci sulla speranza di memoria del futuro e di futuro del passato: per citazioni, per ossimori, per intercambiabilità di tessule musive, per compiaciuti sorrisi scambiatisi allo specchio fra parole e cromie. Per il gioco delle variazioni dell’identico sul versante delle geometrie di base. Per gli incontri confirmatori con gli scandagli, ma anche con i divertimenti mentali e formali di un mago delle geometrie, quel Leonardo, a cui De Tora ha sempre tenuto rivolto lo sguardo, con rispetto, ma anche con affetto, fin dagli anni della giovinezza, fin da opere dei primi anni sessanta.

In queste opere, le geometrie (fondamentalmente triangoli, cerchi e quadrati) cercano innanzitutto sé stesse, per sorprendersi in atteggiamenti ancora non inventariati e da indagare, poi per darsi appuntamenti, un po’ in pubblico, un po’ in qualche atelier privato, per discutere, per esaminare ipotesi, per tenersi anche allegre, o per stare insieme. Sono geometrie innamorate, disposte forse anche ad accettare un giro di tango con qualcuno di noi, se a qualcuno viene la fantasia di invitarle.

perna
Vincenzo Perna
DAL TESTO DI VINCENZO PERNA SUL PIEGHEVOLE-CATALOGO DELLA MOSTRA COLLETTIVA ''EXEMPLA CAMPANA: OVVERO PITTURA COME?'' NELLA GALLERIA ''A COME ARTE'' DI NAPOLI DAL 21 GIUGNO AL 5 LUGLIO 1983

Exempla campana, ovvero pittura come?

 

A fronte di cesure nette e arbitrarie - compiute spesso con l'acquiescenza, ed anche con il contributo di enti locali - che un sedicente oligopolio culturale fornisce da qualche stagione in qua, questa mostra intende porre in luce, sia pure non esaustivamente, ma « per exempla » - l'attuale stato della pittura in Campania. Troppe ambiguità sul piano dell'operatività estetica, costruzioni teoriche artificiose e più o meno palesi interessi di mercato hanno caratterizzato il conclamato « ritorno alla pittura », dando vita a quel « neo-arcadismo pittorico» di cui piu volte ho parlato, e ad una sorta di ariosa chiusura alla realtà e alla qualità della ricerca visiva. Posizione, questa, assunta stranamente ma non tanto (e comunque non per ironia del destino!) proprio da coloro che avevano constatato la « morte » della pittura. È che questa specie di oligopolio culturale continua e insiste nella direzione del partito unico, volutamente ignorando la diversità delle esperienze, con le quali davvero sarebbe più serio e onesto misurarsi. E inoltre si orna di lussuosi cataloghi e allestimenti faraonici, proprio per gettare polvere negli occhi e coprire cosi le debolezze intrinseche di elaborazione teorica e di costruzione. La Campania particolarmente è stata oggetto di veloci incursioni e di tentativi coloniali, che hanno strappato o isolato taluni fenomeni da un contesto che dalla metà degli anni sessanta, e attraverso tutto il decennio successivo, e questi anni piu recenti si è sviluppato secondo una pluralità di linee di ricerca davvero interessanti, a volte di estremo rigore, e peraltro non sempre ben conosciuta al di fuori dei confini geografici. Né si dimentichi che determinate ipotesi di animazione d'arte, specialmente gli interventi sul territorio, hanno ottenuto proprio in questo contesto – fra Napoli, Salerno e Caserta – approfondimenti anche sul piano del metodo del tutto originali, accolti con grande interesse in Jugoslavia e in Austria. Ora viviamo una stagione - già annunciata sul finire degli anni settanta mediante la ricomparsa del disegno e del colore (ricordo la mostra « Paesaggio di paesaggi/momenti di una geografia manuale» a cura di Gualdoni, tenutasi nell'aprile 1980 a S. Maria C. V.) - molto ricca di fermenti tra richieste e offerte di cultura visiva, forse ancora confusa specie per chi ama parlare di « catastrofe» sulla scia di un filosofo francese e propugna la « confusione organizzata »,

Ma è anche una stagione che fortunatamente sta prendendo coscienza di rischi e periodi immani per una umanita giunta al limitare del baratro: i disastri ecologici, l'inquinamento, il deserto che avanza, le modificazioni ambientali, la successione delle crisi che investono gli assetti socio-politici, la minaccia atomica sollecitano comportamenti diversi, sia collettivi che individuali. E l'artista non può rimanere estraneo a questo nuovo panorama, non può che ricercare e assumere un ruolo di presenza diversa dallo sperimentalismo di laboratorio usando meccanismi di approccio linguistico di piu immediata lettura, non solo, e pure contribuendo attivamente ad allargare gli squarci di riflessione sulla condizione umana, sull'originale aggrovigliato impasto di cultura e sentimenti che è proprio dell'uomo.

Gianni De Tora - dopo un lungo periodo volto all'analisi delle strutture, dell'immagini geometrica (quadrati, triangoli, diagonali, cerchi) ma anche del mitico, simbolico « ovo », dell'addensarsi e della scansione dello spettro cromatico, dopo questa insistita frequentazione di elementi primari - riconverte gli strumenti iconici nella direzione della pienezza della pittura. De Tora ha più volte detto: « Non cercare in una superficie bianca quello che non troverai, ma guarda il suo immenso candore ». Da questa volontà precisa di analisi, apertamente dichiarata, coerentemente praticata egli prende ora le mosse per ricostruire sulla tela - non più superficie, ma luogo della pittura - un sottile gioco di rimandi tra le forme, che vicendevolmente attestano la loro realtà, appunto tra la geometria che si riconferma come remota e attuale problema (dubbio e certezza) di dimensione dell'uomo e delle cose, e l'idea, simbolo, cioè l'uovo, ontologico principio di vita e di mutazione. Logica e intuizione comunque restano i capisaldi del pensiero umano, il tessuto connettivo di questi lavori, al di là di ogni tentazione lirica che pure non è del tutto estranea alle ragioni intime del fare e dell'interrogarsi sulla realtà.[....] Sia chiaro: non si tratta di una mostra esaustiva, però rappresentativa e sintomatica dei modi di far pittura in Campania, in sintonia con il generale (e a volte confuso) ritorno dall'opera d'arte; un ritorno che non si pone in termini di abiura nelle neo-avanguardie bensì in direzione di diversi ampliamenti linguistici - con l'acquisizione e la rielaborazione di materiali e metodi che derivano dalle esperienze degli ultimi due decenni di operatività estetica anche sul territorio e nel sociale - per una reale presenza funzionale dell'arte nel mondo contemporaneo.

trione
Vincenzo Trione
ARTICOLO DI VINCENZO TRIONE APPARSO SUL QUOTIDIANO ''IL MATTINO'' DI NAPOLI DEL 23.1.1996 X RECENSIONE DELLA MOSTRA ''GEOMETRIA E RICERCA 1975-1980'' RICOGNIZIONE POSTUMA DEL GRUPPO A CURA DI MARIANTONIETTA PICONE ALL'ISTITUTO SUOR ORSOLA BENINCASA A NAPOLI DALL'8 AL 28 GENNAIO 1996

In mostra al Suor Orsola ''Geometria e Ricerca''

Un sogno di novità per sette artisti

 

La mostra curata da Mariantonietta Picone presso il « Suor Orsola Benincasa » ha un notevole merito. Offrendo uno sguardo retrospettivo su «Geometria e Ricerca», il movimento formatosi a Napoli nel 1976, a 20 anni di distanza, fa discutere sul senso dell'attività e delle proposte di quel gruppo suddiviso in tre nuclei generazionali: Barisani e Tatafiore (nati a ridosso degli anni '20), Di Ruggiero (nato nel 1934), e i più giovani De Tora, Riccini, Testa e Trapani (nati attorno agli anni '40). A quelle esperienze, di fatto, sembrano anche legati alcuni lavori del più giovane del gruppo, Riccini. Su un fronte più «concretista» e «spazialista», invece, si muovono Barisani - il «grande vecchio» - Di Ruggiero, De Tora, Testa, Trapani e (ma solo in parte) Guido Tatafiore, i quali, ricollegandosi a una linea di ricerca astratta che a Napoli era sempre stata «minoritaria», puntano a rendere problematica e, talvolta (si pensi a Struttura oscillante di Barisani), disarmonica, una disciplina assiomatica e «cartesiana» come la geometria.

Così facendo, questi sette artisti napoletani arrivano a proporre «una autonoma declinazione dell'assunto geometrico di partenza». Per un verso essi si inseriscono in quella tradizione anti-espressionistica, non-figurativa, e prevalentemente geometrica, giocata su accordi cromatici netti e su forme ben definite, inaugurata da Van Doesberg; per un altro verso, si ricollegano alle ricerche pittoriche, attente alla purezza formale e spaziale, inseguite dal M.A.C. (il movimento formatosi a Napoli nel 1950 di cui facevano parte anche Barisani e Tatafiore). Rispetto a queste ultime esperienze emerge chiara la carica innovatrice di «Geometria e Ricerca», che, però, sembra attenuarsi - come mette in rilievo in catalogo Angelo Trimarco - se si confrontano i lavori dei «magnifici sette» non solo con le precedenti ricerche dei concettuali americani e inglesi, ma anche con gli esiti analitici di certa pittura francese tra gli anni Sessanta e Settanta. A differenza dei concettuali, gli artisti di «Geometria e Ricerca», infatti, affermando di preferire al «rappresentare» il «formare» perché esso è espressione di «un impegno morale di partecipazione alla realtà», sottolineano il loro bisogno di confrontarsi con il mondo del visibile. In un formare sempre rivolto ad affermare l'assoluta centralità di una libera, ma strutturata, creazione cromatica.

ARTICOLO DI VINCENZO TRIONE APPARSO SU IL MATTINO - NAPOLI DEL 3.4.2003 X RECENSIONE SULLA SERATA MUTANDIS EVENTO SVOLTOSI NEGLI SPAZI DELLE STANZE DELL'ARTE DELL'ED. PIRONTI A NAPOLI IL 3.4.2003

Provocazione per cinque- “Mutandis”, stracci contro la guerra-a Piazza Dante s'inaugura una singolare performance fuori da tutti gli schemi

 

Prima di entrare nelle Stanze dell'arte di Tullio Pironti, affacciate sull'emiciclo di Piazza Dante, sappiate che state entrando in una follia. Non è un eufemismo. Siete in un autentico delirio, privo di centro. Non c'è ordine. Non avete una bussola per orientarvi.

Quella che si inaugura oggi pomeriggio alle 18 - introdotta da un dibattito cui prenderanno parte Vitaliano Corbi e Mario Persico - non è una mostra. Se pensate di andare a vedere una "bella" esposizione, desistete. Vi troverete in un bazar di Macao, avrete la sensazione di essere in una strada del centro storico di Napoli. Vi chiederete: è arte o non è arte? E via con altre domande di questo tipo. Anche noi ci siamo posti questi interrogativi. Sbagliando: non fatevi troppe domande. Percorrete gli ambienti con distrazione, come in un mercato delle pulci, con bancarelle, disomogeneità, bizzarrie, imperfezioni.

Tutto comincia nel 1997. Quando alcuni artisti - Gianni De Tora, Mario Di Giulio, Michele Mautone, Rosa Panaro, Mario Ricciardi -, distanti per storie personali e vicende vissute, un po' per gioco, si uniscono per dar vita a "Mutandis. Un nome che è, innanzitutto, un divertissment, una provocazione. Non si tratta di un vero gruppo. Ma di un "nucleo", nato dall'incontro inconsueto - sotto la regia ironica e beffarda di Nora Puntillo - tra voci che si sono confrontate, senza mai smarrire la propria identità. Ad animarli una sorta di spirito anarchico, che ha reso questi artisti indipendenti rispetto alle logiche del mercato, del "commercio" dell'arte.

Sono trascorsi cinque anni. "Mutandis" - da allora - ha proposto, in circuiti per lo più periferici, una ricca attività creativa, con performances e azioni. La particolarità è costituita dal fatto che il lavorare insieme non ha mai intaccato le singole personalità' nonostante scontri e discussioni. Guidati dal bisogno di esprimere un deciso rifiuto alla guerra, i cinque artisti, in questa occasione, hanno occupato le stanze; le hanno invase con i loro segni e i loro oggetti.

Stracci, mutande, panni appesi, pezze coloratissime, simboli apotropaici. Sembra una gioiosa discarica di rifiuti. Non importa. Tutto è talmente sgangherato da risultare finanche divertente. Ascolti cosa ti dicono i componenti di "Mutandis ", e capisci che le loro affermazioni non hanno alcun senso; vogliono offrire spiegazioni, chiarimenti (come avviene nel video esposto). Inutilmente. Non c'è alcuna logica negli assemblages in cui ti imbatti. La mostra ha la vivacità di una provocazione patafisica assurda, assolutamente inattuale.

Scorrono i fotogrammi di un film di spoglie e di rottami, di una discarica folgorante e discontinua, deforme e impossibile. Sei in un suk di Fez o di qualsiasi altra città d'Africa, tra memorie clandestine e icone scaramantiche, in una atmosfera notturna. A terra, triangoli militari di stoffa, con scritte pacifiste.

Torna alla mente quanto scriveva Lea Vergine nel saggio introduttivo al catalogo di una mostra da lei curata a Rovereto nel 1997, intitolata "Trash. Quando i rifiuti diventano arte". "Gli anni che attraversiamo oscillano tra utopie e catastrofizzazioni, tra il sogno di una catarsi mondana e il sentimento della distruzione, tra aspirazione al progresso e compiacimento della decadenza, tra visione salvifica (e magari redenzione tecnologica) e apocalissi".

Possiamo ricorrere a queste parole per cogliere il significato intimo della follia di "Mutandis".

luongo
Violetta Luongo
ARTICOLO DI VIOLETTA LUONGO APPARSO IL 22 GIUGNO 2007 SU “NAPOLIPIU' “ PER RICORDARE GIANNI DE TORA E LA SUA PARTECIPAZIONE ALLA BIENNALE DI VENEZIA 2007

Protagonisti: l'artista napoletano si è spento ieri a 65 anni. In laguna una sua installazione

per la Camera 312- promemoria per Pierre (Restany)

DE TORA, LA RICERCA DI UN'ARTE PER TUTTI

 

Il filo della geometria non si spezza mai. Nel suo mondo artistico. Si è spezzata invece ieri la vita di Gianni DeTora, cheavrebbe compiuto 66 anni il 12 agosto. Artista napoletano, tra i fondatori negli anni settanta del gruppo Geometria e ricerca, grazie al quale l'artista individuava nella geometria una risposta coerente al problema dell'organizzazione dei segni. Confrontava, deformava, analizzava la realtà fenomenica in ogni singolare caratteristica sviscerando fin che poteva, analizzandone le dovute difficotà esistenti. La sua immagine della realtà era diventata forma geometrica in movimento e in evoluzione continua, sintesi assoluta delle molteplicità cangianti e irrazionali, assolutamente uniche di ogni singolarità presente. Sino alla fine impegnato per la 52° Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia con una collettiva "Camera 312-promemoria per Pierre", progetto a cura di Ruggero Maggi per il Milan Art Center. L'evento rende omaggio al critico d'arte e fondatore del movimento del Nouveau Réalisme, Pierre Restany (1931-2004) che ha soggiornato in maniera continuativa per oltre trent'anni nell'ormai storica camera 312 dell'Hotel Manzoni di Milano. Proprio l'arredamento originale della camera è presentato all'interno degli spazi espositivi, le pareti sono totalmente avvolte da fluttuanti post-it gialli.

Quest'ultimi, strumenti d'uso quotidiano, usati volentieri da Restany, sono l'elemento base del progetto espositivo: l'installazione comprende un tappeto di fogliettini che coprono le pareti e avvolgono i mobili,quasi un unico promemoria formato gigante dal forte impatto visivo. Un assemblaggio collettivo inizia sulle pareti per proseguire sui mobili, ricoprendo lo spazio circostante con isole di colore rigorosamente giallo che coinvolgono e avvolgono lo spettatore. Evento che conferma e rafforza il sodalizio culturale e artistico tra i due: il mondo colorato e geometrico, fatto di segni e linee di De Tora si fonde con quello di Restany, fatto di materiali economici, svolazzanti, semi-adesivi e precari ma forti abbastanza da lasciare un segno pregnante e imperituro della loro capacità di rendere l'arte un bene che emoziona, suggestiona e resiste alla tecnologia, perché comunque le rimane qualcosa da dire. La scomparsa di De Tora lascia sgomento il mondo dell' arte e della cultura. il corteo funebre partirà dall' abitazione dell' artista oggi alle 12, in via Bernardo Cavallino 74. Ci resta una sua frase che lo racconta: «Ricerco la gioia razionale di vivere, ricerco un' arte di tutti ... ».

ARTICOLO DI VIOLETTA LUONGO APPARSO SUL GIORNALE ON-LINE ''IL MONDODISUK'' IL 24 GENNAIO 2009 X RECENSIRE LA MOSTRA COLLETTIVA ''TRACCE SEGNICHE'' A CASTEL DELL'OVO DI NAPOLI NEL GENNAIO DEL 2009

Segni e tracce

 

"Tracce segniche" dell'arte napoletana. Le Sale del Castel dell'Ovo, da Martedì 20 Gennaio alle ore 18 fino al 20 febbraio, ospiteranno la collettiva di quattro artisti protagonisti della scena artistica napoletana.

Antonio Auriemma, Gianni De Tora, Carmine Di Ruggiero e Giovanni Ferrenti, artisti che hanno svolto, lungo tutto l'arco della seconda metà del Novecento, una ricerca che si impernia intorno alle dinamiche informali per poi ampliare l'orizzonte della propria proposta anche verso altri territori, sostanzialmente aniconici, come quello geometrico o come quello onirico-astratto.

All'inaugurazione sarà presentato anche il catalogo in cui, il curatore, Rosario Pinto, nel saggio storico-critico, affronta i temi scottanti e controversi del rapporto tra astrazione e astrattezza, tra impulsi gestuali e controllo progettuale, tra vigore contenutistico e fughe liriche.

Pinto fornisce inoltre la perimetrazione critico-storiografica del contesto ambientale e culturale entro cui hanno operato Auriemma, De Tora, Di Ruggiero e Ferrenti, sapendo guardare, oltre l'orizzonte domestico, alla scena internazionale. Necessari appaiono gli apparati documentari curati da Franco Lista e le numerose immagini che forniscono, per tabulas, l'indicazione di un percorso storico di non trascurabile rilievo.

Il titolo stesso, "Tracce segniche", esprime proprio la marcata consistenza e la forza d'impatto della creatività di questi artisti che con straordinaria coerenza, hanno saputo coniugare l'esigenza dell'espressività generosa e spontanea col rigore della coscienza creativa attraversando, senza contaminarsene, anche i momenti più delicati che, soprattutto negli ultimi due decenni, si sono caratterizzati per l'abbassamento della cosiddetta soglia contenutistica.

Quella che s'annuncia, nelle sale di Castel dell'Ovo, è una mostra intorno alla quale si potrà sviluppare un dibattito storiografico serio e costruttivo capace di volgersi ad osservare il nostro passato più vicino apprezzando e confrontando artisti che hanno svolto, parallelamente ma in maniera diversa e personale, il discorso sull'astrattismo-informale campano. L'impronta astratta bagnata di poeticità onirica e fantastica di Auriemma; il gioco di luci e colori tra i diversi piani formali e spaziali di De Tora; la pittura materica e tattile di Di Ruggiero che intreccia geometrismo e astrattismo, e infine le sculture metalliche di Ferrenti che dialogano con lo spazio in un rapporto meccanicistico e naturale tra pieni e vuoti, si coniugano armonicamente per questo evento.

corbi
Vitaliano Corbi
ARTICOLO DI VITALIANO CORBI APPARSO SUL QUOTIDIANO ''PAESE SERA'' DEL 20 GIUGNO 1983 X RECENSIRE LA MOSTRA COLLETTIVA CURATA DA LUIGI PAOLO FINIZIO ''PLEXUS'83'' NELLA CAPPELLA SANTA BARBARA AL MASCHIO ANGIOINO DI NAPOLI DAL 3 AL 30 GIUGNO 1983

Mostre '' Plexus'83'' nella Cappella Santa Barbara- Un intreccio di 20 artisti

Barisani, Bugli, De Falco, Fomez, De Tora, Ruotolo, Pirozzi, Casciello, Carrino, Casertano, D'Anna, De Siena, De Simone, Di Fiore, Di Ruggiero, Donzelli, Izzo, Mancino, Marano, Mautone

«PLEXUS '83», allestita nella Cappella di Santa Barbara del Maschio Angioino, è certamente una manifestazione viva ed interessante che ha il merito di riunire venti artisti campani, ciascuno con cinque opere, intorno all'ipotesi critica - formulata con una chiarezza divenuta ormai rara - di un intreccio di esperienze e di linguaggi diversi, attraversati però tutti dal filo della memoria: «una memoria - scrive in catalogo Luigi Paolo Finizio, che della mostra è il curatore - praticabile, partecipata e rivissuta dall'interno di reali tragitti di storia personale e di solidale condizione culturale». Non si tratta, dunque, di una ricognizione dell'intera area artistica napoletana, ma di un attraversamento critico di questa, con il proposito, giustamente ambizioso, di rilevare alcuni momenti di ricerca espressiva particolarmente significativi.

Gli artisti presenti nella Cappella di Santa Barbara sono Renato Barisani, Enrico Bugli, Claudio Carrino, Angelo Casciello, Gerolamo Casertano, Gianni D'Anna, Ciro De Falco, Alfonso de Siena, Vincenzo De Simone, Gianni De Tora, Gerardo Di Fiore, Carmine Di Ruggiero, Bruno Donzelli, Antonio Fomez, Mariano Izzo, Enea Mancino, Ugo Marano, Michele Mautone, Giuseppe Pirozzi ed Errico Ruotolo.

Alcuni di loro sono figure di tutto rilievo nelle vicende della cultura artistica della nostra regione, altri sono pittori e scultori di generazioni differenti ma di sicuro valore, le cui opere trovano nella proposta critica di Finizio una convincente chiave di lettura. Ma ve ne sono anche altri - pochi fortunatamente - la cui presenza nel contesto di «Plexus» non riesce, invece. a convincere del tutto, o perché segna una caduta del livello qualitativo, o perché essa, incrinando la coerenza interna della mostra, finisce indirettamente col revocare in dubbio, e non è un paradosso, la giustezza delle assenze. Ma al di là delle smagliature visibili nella trama di questa mostra e dei molti problemi che inevitabilmente si annodano intorno ad ogni iniziativa culturale, è evidente che "PIexus '83» è una manifestazione che, nella esplicita e chiara motivazione della sua proposta, ilumina in maniera efficace alcune zone tutt'altro che periferiche dell'arte in Campania, documentando così, senza pretese di esaustiva compiutezza, l'attuale momento di grande e vario fervore creativo. Bene hanno fatto, perciò, il Comune e l'Azienda Autonoma di Soggiorno, Cura e Turismo di Napoli a concedere il loro patrocinio.

Se mai c'è da rammaricarsi che non sia stato utilizzato uno spazio pubblico più ampio, come ad esempio Castel dell'Ovo, maggiormente adeguato alla notevole articolazione del percorso espositivo.

ARTICOLO DI VITALIANO CORBI APPARSO SU PAESE SERA DEL 9.1.1984 PER
RECENSIONE MOSTRA PERSONALE ALLA SEDE CENTRALE DEL BANCO DI SANTO SPIRITO A NAPOLI 1983-1984

GIANNI DE TORA

 

Nella sede centrale del Banco di Santo Spirito, Gianni De Tora espone fino al 30 gennaio un importante gruppo di opere. Il rigore geometrico, cui da anni si ispira De Tora, come per verificare il mondo della percezione attraverso il filtro dell'intelletto; non può dirsi certamente annullato negli ultimi lavori dell'artista napoletano; anche se esso affiora in modi più complessi e mediati. Le strutture geometriche sono ora incarnate nelle apparenze seducenti della materia, non più estranee al mondo del fenomeni, ma immerse in esso e perciò grondanti di colore e di luce.

TESTO DI VITALIANO CORBI SUL PIEGHEVOLE DI PRESENTAZIONE DELLA MOSTRA '' BARISANI-BIZANZIO-DE TORA-FORGIONE- SPINOSA'' PRESSO LA GALLERIA ''A COME ARTE'' DI NAPOLI DAL 28 MARZO AL 10 APRILE 1989

Le ragioni di una Mostra

 

Questa mostra, che potrebbe sembrare anche di normale amministrazione, assume nell'attuale momento della vita artistica napoletana un duplice rilevante signifìcato. Il primo, ovvio e tuttavia niente affatto trascurabile, è direttamente legato al valore delle opere esposte ed alla personalità dei loro autori: i quali sebbene tra loro molto diversi per generazione e per orientamento di ricerca, recano tutti il segno di una civiltà artistica radicata sì nello spessore e direi persino negli oscuri grovigli della realtà napoletana, ma nello stesso tempo aperta su un orizzonte di cultura e consapevolezza critica autenticamente internazionale. Non è il caso di tracciare qui, neppure sommariamente, il percorso di Barisani, Bizanzio, De Tora, Forgione e Spinosa, poichè ne deriverebbe un intreccio di vicende così fitto e diramato da coinvolgere la trama di mezzo secolo quasi di storia della pittura italiana. Bisognerà limitarsi, perciò solo a qualche rapidissima notazione sulle opere esposte, nella speranza di stimolare così l'attenzione del visitatore e sollecitarlo ad esercitare attivamente il suo diritto di lettura e di giudizio. Domenico Spinosa è presente con tre tele, inedite non solo perchè mai prima esposte, ma anche perchè sorprendono per alcune interessanti novità del linguaggio. Il «naturalismo» informale di Spinosa, infatti, vi appare in una fase di grande freschezza pittorica, singolarmente tenera e frusciante nella diminuita densità degli impasti e nell'ariosa levità del colore. In particolare «Fiori di campo» e «Incontro in giardino» possiedono un armonioso andamento compositivo e una briosa dolcezza di passaggi luminosi degni del migliore Settecento francese. Renato Barisani ribadisce in «Immagine» del 1988 e nel recentissimo «Dolmen» quella che può essere considerata la qualità più evidente ed alta della sua pittura di questi ultimi anni: la straordinaria immedesimazione di una vivida intensità crornatica e di un'asciutta compattezza formale. Questa coincidenza però, non si compie tanto nella spazialità virtuale della rappresentazione quanto nel corpo stesso della materia, dove i diversi elementi figurali si saldano così intimamente da creare situazioni strutturali fortemente unitarie. La «Composizione» di Andrea Bizanzio, nitidamente formulata nel contrappunto dei fermenti percorsi di luce e delle calme distese d'ombra, è una sorta di gioioso «notturno». Nei modi di una rara eleganza ritmica esso revoca immagini di paesaggi familiari: senza mai cedere, però, ai facili intenerirnenti del cuore, badando, anzi, che il gioco della memoria e della fantasia si tenga sempre ad una distanza di sicurezza dall'onda dei sentimenti. Dai dipinti dei maestri della generazione anni dieci, Spinosa, Barisani e Bizanzio, a quelli di Forgione e, ancor più di De Tora il passo non è breve. Ma l'aggancio è facilitato sia dalla vivace spinta innovatrice che attraversa tutt'ora la ricerca dei primi, sia dall'ampiezza dell'area entro cui i secondi conducono la loro ricognizione culturale. La quale, per quanto riguarda Pasquale Forgione, sembra sfiorare certe vivaci soluzioni sintattiche tipicamente boccioniane, soprattutto nel dinamismo dell'incrocio delle verticali e delle diagonali. Ma l'esperienza pittorica di Forgione acquista poi accenti di notevole originalità, movendo nella direzione di un continuum spazio - temporale, che è insieme dimensione della memoria e dell'attualità percettiva, il cui flusso trascina e fonde suggestivamente frammenti del mondo vegetale e del paesaggio urbano. I dipinti «neri» che presenta Gianni De Tora sono stati per me una piacevolissima sorpresa: sono opere, infatti, di un artista indiscutibilmente in un momento di grazia, capace di coniugare insieme semplicità e forza espressiva. Nei quadri di De Tora una rigorosa e quasi scarna formulazione dell'immagine s'accende di brevi ma violenti bagliori cromatici. Questi rimandando la loro luce sui neri circostanti, li esaltano nella bellezza di smaltati splendori e di morbide profondità. E veniamo brevemente al secondo motivo d'interesse di questa mostra. I cinque artisti che vi espongono sono tutti presenti con opere che, diversamente da quel che accade spesso nelle collettive, non rimandano a situazioni variamente pregresse. Nella decisione di rispondere all'invito di «A come Arte» con dipinti recenti, e in qualche caso ancora freschi di vernice, si può leggere I'intenzione di valorizzare quest'iniziativa sottolineando l'importanza del fatto che tra l'attività espositiva e la realtà della vita culturale cittadina non si crea quella barriera d'isolamento che sembra essere diventata invece la base su cui si muovono alcune tra le maggiori gallerie napoletane. Che esse tendano a svolgere anche un ruolo d'informazione su quanto accade fuori dalle nostre mura, è senz'altro apprezzabile. E' anzi, questo, un ruolo tanto più importante, nonostante I'inevitabile parzialità delle scelte e il loro talvolta discutibile valore culturale, quanto più carente in questo campo è l'azione delle strutture pubbliche. Ma quel che preoccupa è che da qualche tempo, mentre molte gallerie d'arte hanno chiuso i battenti o sono ridotte allo stremo, le poche più prestigiose superstiti, si siano trasformate in vere e proprie agenzie d'importazione, interessate esclusivamente ad operare sui margini di fenomeni internazionali di promozione mercantile e mondana, che può offrire anche convenienti «ritorni» di immagine sui circuiti dei mass media, ma che certamente ha ben poco da vedere con i problemi della ricerca artistica.

ARTICOLO DI VITALIANO CORBI APPARSO SUL QUOTIDIANO ''LA REPUBBLICA'' NAPOLI DEL 14.1.1996 X RECENSIONE DELLA MOSTRA ''GEOMETRIA E RICERCA 1975-1980 '' RICOGNIZIONE DEL GRUPPO A CURA DI MARIANTONIETTA PICONE ALL'ISTITUTO SUOR ORSOLA BENINCASA DI NAPOLI DALL'8 AL 28 GENNAIO 1996

Mostra al Suor Orsola, ripensando all'astrattismo

Quando l'arte è solo geometria

 

Con una tavola rotonda, presieduta da F. M. De Santis, e l' inaugurazione di una mostra l'Istituto Suor Orsola Benincasa ha ricordato un'interessante pagina dell'arte a Napoli. L'attività del gruppo ''Geometria e Ricerca" - costituito nel 1976 da Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Riccini, Tatafiore e Testa, cui s'aggiunse l'anno dopo Trapani - rappresenta, infatti, un significativo segmento di quella linea astratta che nella città è stata forse minoritaria rispetto ad altre più divulgate tendenze artistiche, ma che ha lasciato un segno prodotto nelle vicende di tutta la seconda metà del secolo, a partire, appunto, dal 1950, quando nacque il gruppo napoletano del Mac. Questi pionieri dell' astrattismo (tra cui troviamo già Barisani e Tatafiore) avevano coltivato la generosa illusione di «inserire - com' essi stessi dicevano - il lavoro artistico nella produttività contemporanea, dall' architettura alla produzione industriale». Con «Geometria e Ricerca» l'attenzione si sposta invece dal ruolo sociale dell' arte alla sua dimensione linguistico-conoscitiva.

Tra i meriti degli artisti di «Geometria e Ricerca» c'è quello di non aver abbandonato il terreno specifico delle pratiche artistiche e di aver continuato a dipingere quadri e a realizzare oggetti artistici. Le loro opere, in cui le forme dell'immaginario geometrico appaiono sospese tra fantasia e spirito critico, documentano oggi una volontà di resistenza culturale al processo di mercificazione, che proprio in quegli anni - con la diffusione delle tecnologie avanzate e dei nuovi modi di comuni- cazione nella società dei consumi di massa - incominciava a diventare così pervasivo da coinvolgere non più l'opera d'arte in quanto possibile oggetto di scambio, ma l'intero campo della produzione dei linguaggi e dei comportamenti.

TESTO DI VITALIANO CORBI PRESENTE SUL CATALOGO DELLA MOSTRA DEL GRUPPO '' GENER-AZIONI 2'' PRESSO LE SALE DEL PALAZZO S.MATTEO NELLA BIBLIOTECA COMUNALE DI NOCERA INFERIORE (SA) GIUGNO-LUGLIO 1997

GENERAZIONI (2)

 

Questa mostra, nata dall'incontro di sei artisti napoletani, diversi per generazione e per formazione culturale, ha molti meriti. Il primo, di tutta evidenza, ma non per questo meno importante, è di presentarsi come una raccolta di opere di così alta 'qualità' da costituire uno dei maggiori avvenimenti espositivi dell' anno e da aver diritto non solo all'attenzione di un largo pubblico, ma anche delle istituzioni pubbliche e dei mezzi d'informazione, che impegnati per ragioni di audience nel promuovere ed enfatizzare gli eventi dell' arte-spettacolo - come ha già osservato Giorgio Segato, curatore, insieme con Nicola Scontrino, della prima edizione di questa rassegna - mostrano invece scarso interesse per i momenti veramente significativi della vita artistica.

So bene che la questione della qualità delle opere viene di solito considerata troppo generica o ambigua e, in fondo, superata, nella realtà del cosiddetto 'sistema dell' arte', dai meccanismi di selezione regolati essenzialmente dalle leggi del mercato. Mi rendo anche conto che non è questa certamente l'occasione per tentare di sciogliere il complesso nodo teorico sotteso al concetto di qualità artistica, ma, d'altra parte, senza voler deprimere il ruolo delicato ed insostituibile svolto da mercanti e da galleristi, si ammetterà che, in un momento di diffuso ripensamento sul ruolo salvifico del mercato e sulle virtù del liberismo selvaggio, è lecito nutrire qualche dubbio anche sulla opportunità di accantonare la problematicità di quel concetto e di accettare di fatto l'identificazione del valore artistico con il valore di scambio.

Lasciamo, dunque, che il riconoscimento di questo primo e fondamentale merito della mostra rimanga affidato alla risposta di quanti vorranno cercare il rapporto diretto con le opere di Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Lanzione, Manfredi e Spinosa. E sarà proprio il rapporto con le opere a con- fermare un altro tratto che caratterizza questa manifestazione: il modo in cui convivono le opere dei nostri sei artisti non ha nulla dell' eterogeneità di tante 'collettive' né della rigidità di certe formule critiche preconfezionate.

La convivenza in un unico spazio espositivo indubbiamente esalta quanto di proprio ed originale è nel lavoro di ciascun artista, ma provoca anche I'effetto di un alone comune, di un orizzonte di riferimenti culturali suscitato appunto dall'incontro di esperienze diverse, ma tra di loro dialoganti. La vivace e nitida sensazione di un' articolazione per differenze, interna alla mostra, si manifesta in prima istanza, nell'immediatezza cioè dell'impatto percettivo, come variazione tra una pluralità di nuclei fenomenici, come tensione tra la gioiosa, rutilante vibrazione dei colori di Spinosa e la severa ed insieme delicata architettura dei grigi di De Tora, tra la luminosa misura delle superfici pittoriche di Barisani e il dinamismo dei piani trasparenti di Lanzione, tra il sospeso stupore dei frammenti di Di Ruggiero e il coinvolgimento ambientale delle geometrie di Manfredi.

All' origine di questa fittissima rete di rimandi c'è indubbiamente l' appartenenza ad una medesima area, non solo geografica ed antropologica, ma anche culturale, qual'è quella napoletana, segnata da tempo da forti emergenze creative, indubbiamente radicate nell' humus locale, ma anche alimentate da una circolazione di cultura internazionale. La quale, sarà bene precisare, non si spiega solo con l'attività svolta negli ultimi due decenni da qualche prestigiosa galleria privata, rivolta prevalentemente all'importazione di prodotti talvolta anche di grandi marche, ma selezionati ed imposti sul mercato napoletano con criteri e metodi che hanno poco a che vedere con il confronto culturale. Ci riferiamo invece ad un più ampio contesto di avvenimenti, che risalgono almeno all'avvio degli anni '50, proprio quando due degli artisti presenti in questa mostra, Barisani e Spinosa, tra concretismo ed informale, davano alla loro esperienza artistica un respiro europeo. All'origine, dunque, della convergenza che questa mostra ha saputo felicemente tradurre in un incontro espositivo c'è qualcosa di più della generica appartenenza ad un' area comune. Si tratta di una frequentazione non dico, certo, di gruppo o di tendenza, ma di un versante dell' arte contemporanea per indicare il quale ha forse ancora qualche senso il riferimento all' astrazione. In altre parole, credo che nei confronti di questi artisti non sia criticamente infondato ritornare ad interrogarsi sul senso dell' astrazione, intesa come fascio di molteplici esperienze che nessuno oggi immagina di poter definire univocamente, ma che tuttavia possiedono una loro continuità storica, forse più facilmente rilevabile nella concretezza degli scambi e degli intrecci linguistici che non per una coerente omogeneità teorica, questa sì ben presto frantumatasi - già nelle mani dei padri dell' astrazione, e intendo proprio di Mondrian e di Kandinsky - sotto le spinte opposte di un ontologismo totalizzante e di uno sperimentalismo di matrice scientista, segnato da pretese non meno assolutistiche. Forse ci si chiederà quale valore possa avere questo problema - che sa oltretutto di lontani antagonismi ideologici - oggi, nel clima del 'postmoderno' dominato dal gusto delle contaminazioni, degli impasti di cultura snervati, capaci di riciclare con indifferenza i più diversi ingredienti. La risposta, che non può ovviamente che fare la tara a questa rozza e pasticciata idea di fuoriuscita dalla cultura della modernità e dalla sua dimensione progettuale, in nome di un eclettismo teorico che somiglia troppo ad una accomodante e cinica resa all' esistente, porterebbe molto lontano. Ci si dovrà contentare qui di riassumerla nell' evidenza direi esemplare del segno di questa stessa mostra, dove ancora appare viva la coscienza dell'importanza di certi confini all'interno dell'arte e della riflessione critica su di essi, con la ricerca di una coerenza espressiva, nel nome appunto dell' astrazione, che consente a questi artisti di avvicinare, senza però scavalcarlo, quel confine al di là del quale le immagini dell'arte acquistano I'illusoria apparenza della realtà e si confrontano direttamente con lo spettacolo del mondo.

Invece qui, nel territorio dell' astrazione attraversato dai nostri sei artisti campani, lo sguardo si sposta dal gioco speculare tra le figure della vita e dell' arte al processo di costituzione di questa. E ciò va detto chiaramente, soprattutto per sottolineare come la bellezza fenomenica persino sensuale di tutti lavori esposti in questa mostra dimostri che l'astrazione non è la strada dell'allontanamento dai valori fenomenici, dalle qualità sensibili attraverso cui noi viviamo il nostro rapporto col mondo, e che il suo approdo storico non può essere riconosciuto nella frigidità di certi prodotti concettuali o neominimalisti. Se da una parte la straordinaria flagranza percettiva delle opere richiama prepotentemente l'attenzione sulla qualità visiva dell'immagine, sul suo darsi allo sguardo qui ed ora, non come simbolo trasparente che rimandi ad altro, ma come presenza assoluta ed insostituibile, dall'altra parte s'avverte in esse una costitutiva apertura al mondo: non già nel senso del loro riassorbimento nelle immediate circostanze ambientali, ma in quello della loro capacità di convocare sul proprio orizzonte gli echi di altre esperienze, e non solo visive. Rigore formale e bellezza sensuale, intenzionalità consapevole e ''mondo della vita" sono i termini tra i quali si svolge la ricerca di questi artisti e la ricchezza dei movimenti, le imprevedibilità degli esiti concreti ci dicono che non si tratta di uno schema precostituito, ma di una tensione che riesce a legare il momento della spontaneità creativa, affondato nelle stratificazioni della soggettività, con quello della dimensione operativa controllata e dell'espressione artistica consapevole, poiché l'intenzionalità che è alla base di ogni autentica progettualità estetica ha le sue radici nella soggettività precategoriale della Lebenswelt o, se mi è concesso un accostamento di Husserl a Freud, nella regione profonda dell'Es.

Questa mostra ha una sua storia, che non è ovviamente solo quella dei propositi culturali e delle vicende organizzative da cui è nata. E' la storia degli artisti che vi partecipano: una storia che, attraverso vari passaggi generazionali, prende avvio dal secondo dopoguerra e che, appena pochi anni dopo, come già si è accennato, col concretismo di Barisani e l'informale di Spinosa, incomincia già a delineare gli estremi tra cui in seguito essa si muoverà. Il percorso del gruppo napoletano arte concreta, di cui fecero parte con Renato Barisani, Renato De Fusco, Guido Tatafìore e Antonio Venditti, s'inoltrò nell'area variegata dell'astrattismo italiano, toccando non solo Milano, ma anche Roma e Firenze. Nel secondo dopoguerra, del resto, l'Italia e l'Europa erano state largamente attraversate da una ripresa di poetiche astratto-concrete. E proprio in rapporto a questo più ampio e vario contesto europeo non è azzardato affermare che il gruppo napoletano, forse sotto la spinta di un'utopia alimentata dalla coscienza della gravità dei problemi della società meridionale, tendesse a ricondurre l'accento su certi temi cari alla cultura del 'razionalismo', arrivando infine a sostenere la necessità di "inserire il lavoro artistico nella produttività contemporanea, dall'architettura alla produzione industriale, la rinuncia di una creatività individualistica per la collaborazione con altri artefici, l'incontro con gli uomini sul piano del lavoro".

Dal '50, quando egli, poco più che trentenne, avviò le sue prime esperienze astratte, il modo d'intendere l'astrazione di Barisani è stato sempre segnato da una inconsueta ampiezza e libertà d'investigazione. Nel corso di un cinquantennio quasi di attività egli ha attraversato il territorio delle esperienze non-figurative tracciandovi percorsi di eccezionale nitore formale, ma anche estremamente mobili e aperti su orizzonti diversi. Il passaggio dalle geometrie del neoconcretismo ai densi conglomerati materici dell'informale, dall'inquieta emblematicità degli oggetti meccanici alla nuda essenzialità delle strutture modulari e, da qui, alla loro candidatura ad una dimensione architettonica ed urbanistica, fino all'evocazione d'una vitalità organica con un sentimento persino gioioso e sensuale della bellezza del colore, segnala il vario svolgimento di una 'poetica' caratterizzata dal primato della pratica fenomenologica del linguaggio artistico (come ha più volte sottolineato E. Crispolti). Ciò vuol dire anche che la scelta con cui s'aprirono per Barisani gli anni '50 - pur nella specificità delle motivazioni del momento storico, confluite nella costituzione del Gruppo Napoletano Arte Concreta - non è da leggere semplicemente come un'opzione di parte, una presa di posizione che vincolava l'artista a un patto di fedeltà formale ed ideologica. Essa rappresentava certamente una risposta culturale ai problemi che allora si ponevano alla sensibilità del giovane artista, ma toccava ragioni oserei dire esistenziali, la cui autenticità avrebbe costituito il fondamento del rinnovarsi, nel tempo, di quelle stesse originarie mozioni di libertà. L'attività del gruppo 'Geometria e Ricerca' costituito nel '76 da Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Riccini, Tatafiore e Testa, cui s'aggiunse l'anno dopo Trapani - segna un altro importante momento della ricerca astratta a Napoli. L'attenzione ora si sposta dal ruolo sociale dell'arte alla sua dimensione linguistico-conoscitiva. Non per caso nel catalogo di una mostra del gruppo era riportato il famoso passo in cui Galilei afferma che il libro dell'universo "è scritto nella lingua matematica e i suoi caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche". Lo spostamento d'accento era, però, un fatto secondario rispetto alla continuità di una ricerca che insistendo sulla concretezza del fare arte entrava consapevolmente in polemica con le tendenze 'comportamentistiche' e 'concettuali' allora dominanti. Tra i meriti degli artisti di 'Geometria e Ricerca' c'è quello di non aver abbandonato il terreno specifico delle pratiche artistiche e di aver continuato - per dirla semplicemente - a dipingere quadri ed a realizzare oggetti artistici. Essi non credettero che con le performances più o meno politicizzate o con le analisi concettuali si potesse sottrarre l'arte ai suoi limiti storici ed insieme al pericolo della mercificazione. Le loro opere, in cui le forme dell"immaginario geometrico" appaiono felicemente in bilico tra fantasia e spirito critico, documentano una volontà di resistenza culturale al processo di mercificazione, che in quegli anni - con la diffusione delle tecnologie avanzate e dei nuovi modi di comunicazione nella società dei consumi di massa - incominciava a diventare così pervasivo da coinvolgere non più l'opera d'arte in quanto possibile oggetto di scambio, ma l'intero campo della produzione dei linguaggi e dei comportamenti. Carmine Di Ruggiero aveva esordito negli anni '50 con una pittura di forte partecipazione informale, non lontana da certi aspetti dell"ultimo naturalismo" padano. Nella prima metà del decennio successivo, dai frammenti dell'immagine pittorica esplosa nella luce egli ricavò tasselli e strutture che preludevano alla svolta verso le forme geometriche e allo sconfinamento fuori del quadro. L'approdo oggettuale avvenne tra il '66 e il '67. Come annotò tempestivamente Filiberto Menna, le opere di Di Ruggiero si vennero a collocare "in un contesto di esperienze tendenti ad una sempre più marcata e rigorosa oggettivazione del fatto artistico". Il successivo passaggio ad una rigorosa ricerca geometrica, caratterizzata dalla variazione di un unico modulo triangolare, potrà apparire anche brusco, ma in realtà esso, mentre segna l'inizio del progressivo riassorbimento sulla superficie dipinta di quei precedenti elementi oggettuali, riconduce il candore luminoso delle sculture al bianco dei grandi fondi che serra tutt'intorno le schiere colorate dei triangoli. Non è perciò priva di una sua intima coerenza la ripresa dei modi informali avvenuta nel corso degli anni '80. Ma va notato che questa fase dell' esperienza artistica di Di Ruggiero, tuttora direi in pieno corso, si svolse al riparo dall'ondata torbida che dilagò al seguito dei vari esempi di pittura 'selvaggia'. E ciò perché l'artista rimane sempre particolarmente attento ai valori strutturali dell'opera. Notazioni rapide del segno e depositi frammentari di colore organizzano l'immagine secondo un andamento ritmico che s'affida non solo ad un'agile corsività, ma anche al rapporto tra la materia e la sua assenza. Queste pause scandiscono il respiro interno e preparano quel bianco silenzio che nelle opere di questi ultimi anni accompagna il presentarsi dell'immagine sulla immobile scena del quadro.

Gianni De Tora, dopo un periodo di frequenti viaggi e di soggiorni all'estero, soprattutto tra Parigi e Londra, all'inizio degli anni '70 si era orientato verso l'astrazione geometrica. Il momento decisivo di questa ricerca nella quale la geometria fornisce una risposta al problema dell'organizzazione dei segni coincide appunto con la partecipazione dell'artista al gruppo di "Geometria e Ricerca''. Ma, come aveva intuito Crispolti fin dal '75, si tratta pur sempre del tentativo di "fissare entro un controllo strutturale geometrizzato i termini di una mutazione di natura, infinitamente fluida e sfuggevole". Perciò non meraviglia che durante gli anni '80 ritorni nella purezza dei colori e nel rigore della forma il fascino del dato naturale. Questo, luminosamente trasfigurato, conquista una posizione centrale nel quadro, entro una sorta di finestra aperta sul mondo, quasi un quadro nel quadro, o forse un brano di preziosa pittura incastonato entro la severa scenografia di larghe campiture di grigi e di neri. Nelle opere più recenti, forse neppure esposte in questa mostra, l'artista sembra voler rinunciare alla suggestione dell'incontro tra geometria e natura e, procedendo dapprima ad una riduzione sempre più asciutta della fenomenicità di questa, poi al suo completo riassorbimento entro la struttura del dipinto, concentra il proprio intervento sul rapporto tra zone lucide ed opache, della superficie dipinta, entro schemi compositivi che introducono un moderato elemento di dinamismo attraverso lo scatto delle asimmetrie.

Lo stretto rapporto di Domenico Spinosa con l'informale ha ben poco in comune con la versione per così dire tragica e viscerale di questo ultimo grande movimento pittorico apparso sulla scena dell' arte contemporanea. Nei dipinti di Spinosa, a partire dal '53, il colore acquista la pienezza di un corpo, accarezzato e graffiato nella carne dei suoi impasti, ma restituito poi interamente alla dimensione visiva attraverso i valori tonali e la loro articolazione spaziale. Anche nei momenti di più risentita matericità, come in molte opere tra la fine degli anni '50 e l'inizio del decennio successivo, ai suggerimenti di prossimità tattile corrispondono sempre altri di lontananza, di luminosità e di trasparenza. Quella di Spinosa non è mai stata materia bruta, cieca, realtà autre che resista allo sguardo chiudendosi in una oggettività insondabile e quasi ostile al rapporto con l'uomo. Si potrebbe pensare, allora, che rispetto ai modi propri della pittura informale Spinosa abbia operato una riconversione in senso naturalistico, recuperando certe caratteristiche proprie della spazialità pittorica tradizionale. Al contrario, se un certo oltranzismo naturalistico è presente proprio in quel- l'informale che attraverso lo scandaglio della materia s'illudeva di conquistare, al di là delle prime apparenze, il cuore più segreto ed oscuro della natura, la lontananza, l'ariosità e la trasparenza luminosa che fanno respirare i dipinti di Spinosa costituiscono il segnale dello scarto dall'opacità esistenziale verso la leggerezza, intesa come qualità di un linguaggio pittorico liberato dalla gravità del mondo delle cose. Tuttavia è difficile negare che da alcuni anni Spinosa ha rinnovato e reso più agevolmente riconoscibile il rapporto con la realtà fenomenica, che egli, del resto, lungo l'intero arco della sua ricerca artistica non ha mai del tutto interrotto. Mario Pomilio, che ha scritto alcune delle pagine più penetranti sulla pittura di Spinosa, ha insistito giustamente sul "senso fortissimo della mutevolezza della realtà fenomenica... come sorpresa tra due battiti di ciglia e per quell'istante sollevata al magico, all'illusorio, al surreale". Questa capacità di esprimere l'assoluta bellezza fenomenica che si può concentrare nella percezione di un attimo di vita fa sì che lo sguardo dell' artista, vagando tra il cielo e le chiome degli ulivi o posandosi sul volo di una libellula senta cadere da sé la malinconia di cui è carica la memoria e s'immerga felice nel mondo che la pittura gli apre dinanzi.

La prima 'personale' di Lanzione, nel Centro Zero di Angri, è del '73 e il catalogo reca la presentazione di Spinosa. Pochi anni dopo, nel '77, una collettiva nella stessa galleria vede accanto ad un gruppo di dipinti di Spinosa e di alcuni suoi allievi (tra cui di nuovo Lanzione) anche alcune opere di Barisani. L'intreccio tra quelle che si possono considerare due linee portanti della ricerca astratta a Napoli, non rigidamente separate, ma tuttavia chiaramente distinguibili, continuerà in seguito a svilupparsi in occasione di altri appuntamenti espositivi, che possono essere considerati in qualche modo le immediate premesse a questa nostra rassegna. Durante gli anni '80 a Napoli, come altrove, del resto, su questa linea si sono ritrovati parecchi artisti. Essa era stata già nitidamente tracciata tra seconda metà del decennio '60 e l'avvio di quello successivo, quando era diventata minima la distanza anche tra Barisani e Spinosa. Quando, per effetto di due diversi ma convergenti modi di avvertire la presenza della natura entro l'esperienza dell'arte, l'attitudine di Barisani a sperimentare tecniche e materiali nuovi, spinta fino ad includere nell' orizzonte della ricerca astratta il gioco dei riflessi, delle circostanze ambientali e delle luci del paesaggio mediterraneo s'era venuta a trovare non molto lontano dall'approdo cui era intanto pervenuto Spinosa riducendo l'impianto figurativo dei suoi dipinti precedenti ad una misura di estrema essenzialità, quasi una densa e scarna matericità che continuava tuttavia ad evocare suggestive connotazioni di ambiente e di paesaggio. La pittura di Mario Lanzione, che, come s'è detto, è stato allievo di Spinosa, è attraversata dalla tensione espressiva tra il polo del rigore formale, dove nasce l'idea di una geometria di largo impianto spaziale, e quello della sensibilità, dove la bellezza della materia passa dalle stesure compatte del colore alla trasparenza delle carte veline. Da anni l'artista va inseguendo l'idea di un mondo in cui la tenerezza dei sensi si sposi con la prospettiva di spazi misteriosi, ma non ostili, forse perchè anch'essi sostenuti, come i frammenti della natura più vicina e familiare, dalla stessa sensuale materia e dalle stesse rigorose coordinate geometriche. Ma la saldatura tra quei due momenti della pittura contemporanea - l' astrazione geometrica e l' esperienza informale - per Lanzione non è un' operazione che si possa realizzare epidermicamente sulla superfieie del quadro. L'impulso originario sta probabilmente al di là dell'arte stessa e coinvolge quelle ragioni che hanno spinto di tanto in tanto Lanzione ad esprimersi con interventi estetici fuori dei confini tradizionali dell'arte, o ad accettare commissioni di opere inserite direttamente nel contesto ambientale. In questa stessa direzione moderatamente environmental, ma con un percorso diverso, anche per motivi generazionali, si muove ora la ricerca di Antonio Manfredi. Le sue opere, in cui è assente qualsiasi intenzione di mimetismo naturalistico, recano più di un riferimento all'idea di natura. Alcune teche di plexiglas, realizzate tra l'87 e 1'88, includevano spesso una pietra, una scheggia di marmo, esibita nella sua spoglia conformazione naturale o rivestita d' un azzurro splendente, come se su quell'anonimo frammento, si fosse raccolta la luce del cielo. Una serie di lavori di poco posteriore si apriva direttamente allo spazio della natura: grandi pannelli verticali levavano le loro nitide superfici azzurre sullo sfondo del cielo e del mare. Ma a queste superfici dipinte si affiancavano alcune fasce di plexiglas brunito, che, attraverso il filtro delle trasparenze, consentivano all'opera di includere entro di sè la visione del mare e del cielo. Così, ancora, in uno spazio artificiale può sorgere un'inattesa luna di pietra o in un luogo di astratte geometrie, che si sarebbe detto puramente mentale, si vedono scendere le ombre azzurre della sera. Ma l'idea della natura, presente soprattutto come rimando a una fonte primigenia di energia vitale, dialoga sempre con quella di una rigorosa misura razionale. Pervenuto ora ad una nitida formulazione di geometrie che giocano con grande eleganza a disporsi sul piano e a penetrare nell'ambiente, ma sempre mantenendo la loro aderenza alla superficie materiale delle pareti o del pavimento, Manfredi, attraverso la dislocazione degli elementi delle sue installazioni che concilia rigore e libertà di movimento, mantiene vivo quel rapporto tra artificio e natura da cui era partita la sua ricerca.

Vorrei ribadire, con estrema chiarezza che qui è stata tracciata, sia pure nei limiti di un breve ed occasionale testo introduttivo, una vicenda forse non abbastanza conosciuta, ma tutt'altro che marginale nel contesto della cultura artistica italiana. Questa vicenda nsi è on ha in Lanzione e Manfredi semplicemente l'ultimo anello della catena, quello che chiude il cerchio. E ciò sia perchè essa, sebbene si distenda sull'arco di quasi cinquant'anni, vede semplicemente attivi tutti i suoi personaggi, sia perchè non ha mai avuto uno svolgimento lineare, ma , come si è tentato di mostrare, si è sviluppata piuttosto attraverso la molteplicità degli intrecci e delle articolazioni.

Ciò risulta più evidente, se al di là della durata dei singoli raggruppamenti e delle diverse ''poetiche'', si fa attenzione all'importanza degli snodi generazionali. Le opere di Lanzione e di Manfredi con la loro limpida presenza s'accordano al tratto di solarità mediterranea proprio di quest'area della ricerca, che sembra rifiutarsi di sprofondare nei grovigli del '' tragico quotidiano ''.

Esse, perciò, rinnovano la forte carica d'intenzionalità espressiva e persino quella fiducia nel valore progettuale dell'arte che abbiamo visto segnare in partenza la nostra ''storia''. Ma, oscillando tra veloci slittamenti di piani pittorici e delicate, quasi pellicolari aderenze alle strutture ambientali, lo fanno con un accento nuovo, d'imprevedibile leggerezza e flessibilità.

DALL'ARTICOLO DI VITALIANO CORBI APPARSO SULLA RIVISTA ''CHIAROSCURO '' DI OTT/DIC.2000 NELL'INSERTO '' CRITICA D'ARTE'' DOVE SI ACCENNA ALL'ESPERIENZA DEL GRUPPO '' GEOMETRIA E RICERCA'' ED A QUELLO DI '' GENERAZIONI''

I percorsi dell'astrazione a Napoli tra progettualità estetica e soggettività precategoriale

 

[…...]L'attività del gruppo Geometria e Ricerca - costituito nel '76 da Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Riccini, Tatafiore e Testa, cui s'aggiunse l'anno dopo Trapani- rappresenta un'interessante ripresa della ricerca astratta, che a Napoli è stata forse minoritaria rispetto ad altre più divulgate tendenze artistiche, ma che ha lasciato un segno profondo nella cultura artistica della seconda metà del Novecento. I pionieri del concretismo napoletano avevano coltivato la generosa illusione di " inserire - lo abbiamo già ricordato - il lavoro artistico nella produttività contemporanea". Con Geometria e Ricerca l'attenzione si sposta invece dal ruolo sociale dell'arte alla sua dimensione linguistico- conoscitiva. Non per caso nel catalogo di una mostra del gruppo era riportato il famoso passo in cui Galilei afferma che il libro dell'universo "è scritto nella lingua matematica e i suoi caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche". Lo spostamento d'accento era, però, un fatto secondario rispetto alla continuità di una ricerca che insistendo sulla concretezza del fare arte entrava consapevolmente in polemica con le tendenze comportamentistiche e concettuali allora do- minanti. Tra i meriti degli artisti di Geometria e Ricerca c'è quello di non aver abbandonato il terreno specifico delle pratiche artistiche e di aver continuato - per dirla semplicemente - a dipingere quadri e a realizzare oggetti artistici. Essi non credettero che con le performance più o meno politicizzate o con le analisi concettuali si potesse sottrarre l'arte ai suoi limiti storici ed insieme al pericolo della mercificazione. Le loro opere, in cui le forme dell"'immaginario geometrico" appaiono felicemente in bilico tra fantasia e spirito critico, documentano una volontà di resistenza culturale al processo di mercificazione, che in quegli anni - con la diffusione delle tecnologie avanzate e dei nuovi modi di comunicazione nella società dei consumi di massa - incominciava a diventare così pervasivo da coinvolgere non più l'opera d'arte in quanto possibile oggetto di scambio, ma l'intero campo della produzione dei linguaggi e dei comportamenti. A questo quadro complessivo, caratterizzato da un' esasperata accelerazione consumistica, si collegava Crispolti nel presentare il gruppo nel '77, insistendo sulla politica di colonizzazione culturale ed economica di cui era oggetto allora più pesantemente che mai il Mezzogiorno, attraverso l'imposizione di prodotti e di modelli estranei e l'emarginazione degli artisti locali dai circuiti nazionali. "La condizione drammatica dell'operatore culturale ed artistico in particolare nel sud è stata ed è quella di dover combattere appunto per la conquista di uno spazio di possibilità di auto identificazione e di autonomia. Alcuni hanno preferito una soluzione di abbandono di quella situazione, e sono risaliti al nord o fuori d'Italia, altri - i più naturalmente (e fortunatamente) - hanno resistito sul posto, tentando di fondare il senso diverso di un lavoro pur strettamente dialogante con i portati di un'avanguardia internazionale". La sottolineatura del radicamento in questa situazione non contrasta affatto con il riconoscimento dell' attenzione che Geometria e Ricerca rivolge alla riconsiderazione strutturale dei materiali e dei linguaggi della pittura. Un riconoscimento - già avan- zato da Finizio nel '79 e ritornato con maggiore evidenza in uno scritto di Menna dell'anno successivo - che vale soprattutto per il lavoro svolto da Riccini in consapevole consonanza con le ricerche della cosiddetta Nuova Pittura e ancor più con quelle francesi di Support - Surface. Mariantonietta Picone Petrusa, nel catalogo di una mostra che ha ricostruito, vent'anni dopo, i fatti e le ragioni che portarono alla formazione di Geometria e Ricerca, si è soffermata particolarmente su quest'aspetto della ricerca del gruppo, la cui posizione risulterebbe nel complesso abbastanza prossima all' area delle "istanze concettuali", ma non certo nel senso di un superficiale adeguamento ad un fenomeno di moda. Va notato, infatti, che la Picone Petrusa, rivolgendo la propria attenzione sugli ultimi anni di vita di Guido Tatafiore, segnati dal ritorno alle mostre con una personale allo Studio Ganzerli nel '75 e dall'adesione, l'anno successivo, al gruppo di Geometria e Ricerca, osserva a proposito delle opere di questo periodo, e particolarmente di alcuni pannelli di legno con scritte in rilievo, che esse sembrano "mettere in evidenza con una involontaria (o voluta?) ironia una delle principali contraddizioni dell'arte concettuale allora in voga: la materializzazione dei concetti". La mia impressione è che il dubbio di Tatafiore s'allunghi sul valore di tutta una linea di rigorismo formale, che toccava certo più da vicino le presunte ricerche logico-linguistiche dei concettuali, ma che forse non lasciava fuori neppure le illusioni del movimento moderno di cui lo stesso Tatafiore aveva sentito il fascino negli anni del dopoguerra, quando si era associato alla dichiarazione Perché arte concreta, del '54. Ora, nei confronti di tutto ciò, che aveva rappresentato certo un momento importante della sua vita, Tatafiore non opponeva un atteggiamento di negazione assoluta, ma un certo distacco, un filo d'ironia fantasiosa che s'insinuava nella corposità delle scritte, nel piacere per una materia antica come il legno- quella stessa che egli, quando era stato lontano dalla scena artistica, aveva imparato ad usare per la costruzione delle sue barche - e nelle irregolarità e nelle colature del colore[.....]

All'appuntamento del dicembre dell'87 erano assenti molti altri artisti che, in tempi diversi, si erano attestati su quella stessa "linea di non figurazione costruttiva". Mancava soprattutto Gianni De Tora, che, provenendo da esperienze informali e neofigurative, all'inizio degli anni settanta si era decisamente spostato sul terreno delle ricerche astratte. La partecipazione nel '76 al gruppo Geometria e Ricerca rappresenta il momento di più serrato sviluppo di questa esperienza, nella quale l'artista cerca nella geometria una risposta coerente al problema dell' organizzazione dei segni. Tuttavia, anche quando la ricerca del rigore della forma e la sua quantificazione matematica sembrano diventare prevalenti, De Tora non arriva a considerare la geometria come un modello di linguaggio autoreferenziale, non si accosta, per questa via, alle posizioni della conceptual art. Il suo obiettivo - annotò Crispolti nel '75 - è anzi quello di "fissare entro un controllo strutturale geometrizzato i termini di una mutazione di natura, infinitamente fluida e sfuggevole". In seguito questo riferimento ai processi naturali si manifesta anche in maniera più diretta. Entro la geometria delle forme, che continua a costituire per De Tora la struttura che definisce e sostiene lo spazio dell'immagine, compaiono momenti di pittura avvivati da una tale fresca reattività cromatica e luminosa da far pensare all'immediatezza d'un appunto sulla natura. Non a caso Pierre Restany ha aperto la sua Ode a De Tora affermando che "non sarà mai totale/il recupero della geometria/una dolce angoscia esistenziale/spalma di miele le prospettive estese alla Rothko". Non si trattava, però, dell'inizio di una manovra di conversione, per lasciarsi alle spalle l'esperienza dei linguaggi astratti. Lo dimostrano le opere più recenti, nelle quali De Tora sembra avere persino rinunciato alla suggestione dell' incontro tra geometria e natura. Si direbbe, infatti, che egli ora sia tornato a giocare la sua partita tutta sul terreno della prima. La finestra si è richiusa, la pittura è tornata a sigillarsi in se stessa. Tuttavia il mito della purezza delle forme geometriche è lontano. A tentare l'artista è semmai la possibilità di scoprire il segreto di altre seduzioni, più aderenti alla pelle e alla struttura dell' opera: e può bastare la sorpresa del passaggio da una zona opaca ad un lucida della superficie dipinta, di uno scarto nella rigida ortogonalità del quadro, di una leggera asimmetria o di un imprevisto andamento obliquo, quasi uno strabismo della forma, per ritrovarsi coinvolti in un'avventura percettiva lungo i bordi di una geometria rischiosamente sfiorata dal fluire degli avvenimenti.....

Tra gli indizi della vitalità della ricerca astratta napoletana è da mettere una notevole capacità di aggregazione, tradottasi frequentemente in interessanti iniziative espositive, come quella che tra il '97 e il '99 ha visto riuniti Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Lanzione, Manfredi e Spinosa in una serie di mostre presentate in diverse città italiane sotto il titolo Gener-Azioni. All'origine di questa iniziativa non ci sono dichiarazioni programmatiche di gruppo, ma la consapevolezza dell' appartenenza ad un' area culturale comune, attraversata da una molteplicità di esperienze che possiedono una continuità storica e una ricchezza di articolazioni più facilmente rilevabili nella concretezza degli scambi e degli intrecci linguistici che non nel riferimento a un principio di omogeneità teorica o formale. Quella dell' astrazione a Napoli è, dunque, un' area molto ampia e variegata, nella quale s'incontrano numerose personalità, tutte operanti entro un comune orizzonte di ricerca non-figurativa, ma ciascuna con un proprio nucleo d'ispirazione e una propria cultura visiva[.....]

La vitalità e la molteplicità delle linee di ricerche qui accennate spingono ad interrogarsi sul senso dell'astrazione, intesa come fascio di esperienze che nessuno oggi immagina di poter definire univocamente, ma che tuttavia possiedono una loro continuità storica, forse più facilmente rilevabile per la concretezza degli scambi e degli intrecci linguistici che non per una coerente omogeneità teorica, questa sì ben presto frantumatasi - già nelle mani dei padri dell'astrazione, e intendo proprio di Mondrian e di Kandinsky - sotto le spinte opposte di un ontologismo totalizzante e di uno sperimentalismo di matrice scientista, segnato da pretese non meno assolutistiche. Forse ci si chiederà quale valore possa avere questo problema - che sa oltretutto di lontani antagonismi ideologici - oggi, nel clima del 'postmodemo' dominato dal gusto delle contaminazioni, degli impasti di cultura snervati, capaci di riciclare con indifferenza i più diversi ingredienti. La risposta, che non può ovviamente che fare la tara a questa rozza e pasticciata idea di fuoriuscita dalla cultura della modernità e dalla sua dimensione progettuale, in nome di un eclettismo teorico che somiglia troppo ad una accomodante e cinica resa all'esistente, porterebbe molto lontano. Ci si dovrà contentare qui di riassumerla nell'evidenza direi esemplare con cui all'intemo delle ricerche astratte di cui ci siamo occupati emerge la consapevolezza del problema storico della separatezza dell'arte e della riflessione critica su quel confine al di là del quale le immagini dell'arte acquistano l'illusoria apparenza della realtà e si confrontano direttamente con lo spettacolo del mondo. Invece qui, nel territorio dell'astrazione, lo sguardo si sposta dal gioco speculare tra le figure della vita e dell' arte al processo di costituzione di questa. E ciò va detto chiaramente. Soprattutto per sottolineare come la bellezza fenomenica persino sensuale che caratterizza quasi tutta la produzione degli astrattisti napoletani dimostri che l'astrazione non è la strada dell'allontanamento dai valori fenomenici, dalle qualità sensibili attraverso cui noi viviamo il nostro rapporto col mondo, e che il suo approdo storico non può essere riconosciuto nella frigidità di certi prodotti concettuali o neominimalisti. Se da una parte la straordinaria flagranza percettiva delle opere richiama prepotentemente l'attenzione sulla qualità visiva dell'immagine, sul suo darsi allo sguardo qui ed ora, non come simbolo trasparente che rimandi ad altro, ma come presenza assoluta ed insostituibile, dall'altra parte s'avverte in esse una costitutiva apertura al mondo: non già nel senso del loro riassorbimento nelle immediate circostanze ambientali, ma in quello della loro capacità di convocare sul proprio orizzonte gli echi di altre esperienze, e non solo visive. Rigore formale e bellezza sensuale, intenzionalità consapevole e "mondo della vita" sono i termini tra i quali si svolge la ricerca di questi artisti e la ricchezza dei movimenti, le imprevedibilità degli esiti concreti ci dicono che non si tratta di uno schema precostituito, ma di una tensione che riesce a legare il momento della spontaneità creativa, affondato nelle stratificazioni della soggettività, con quello della dimensione operativa controllata e dell'espressione artistica consapevole, poiché l'intenzionalità che è alla base di ogni autentica progettualità estetica ha le sue radici nella soggettività precategoriale della Lebenswelt o, se mi è concesso un accostamento di Husserl a Freud, nella regione profonda dell' Es.

DAL VOLUME DI VITALIANO CORBI '' QUALE AVANGUARDIA? L'ARTE A NAPOLI NELLA SECONDA META' DEL NOVECENTO'' – PAPARO EDITORE- GIUGNO 2002

Oltre la superficie

Geometria e ricerca

 

L'attività del gruppo Geometria e Ricerca - costituito nel '76 da Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Riccini, Tatafiore e Testa, cui s'aggiunse l'anno dopo Trapani - rappresenta un'interessante ripresa della ricerca astratta, che a Napoli è stata forse minoritaria rispetto ad altre più divulgate tendenze artistiche, ma che ha lasciato un segno profondo nella cultura artistica della seconda metà del secolo, a partire dalla nascita nel '50 del Gruppo napoletano arte concreta. I pionieri del concretismo napoletano avevano coltivato la generosa illusione di «inserire - com'essi stessi avevano scritto - il lavoro artistico nella produttività contemporanea». Con Geometria e Ricerca l'attenzione si sposta dal ruolo sociale dell' arte alla sua dimensione linguistico-conoscitiva. Non per caso nel catalogo di una mostra del gruppo era riportato il famoso passo in cui Galilei afferma che il libro dell'universo ''è scritto nella lingua matematica e i suoi caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche '' (1). Lo spostamento d'accento era, però, un fatto secondario rispetto alla continuità di una ricerca che insistendo sulla concretezza del fare arte entrava consapevolmente in polemica con le tendenze comportamentistiche e concettuali allora dominanti. Tra i meriti degli artisti di Geometria e Ricerca c'è quello di non aver abbandonato il terreno specifico delle pratiche artistiche e di aver continuato - per dirla semplicemente - a scolpire e a dipingere, a realizzare insomma opere d'arte. Essi non credettero che con le performance più o meno politicizzate o con le analisi concettuali si potesse sottrarre l'arte ai suoi limiti storici ed insieme al pericolo della mercificazione. Le loro opere, in cui le forme dell' ''immaginario geometrico'' (2) appaiono felicemente in bilico tra fantasia e spirito critico, documentano una volontà di resistenza culturale al processo di mercificazione, che in quegli anni - con la diffusione delle tecnologie avanzate e dei nuovi modi di comunicazione nella società dei consumi di massa - incominciava a diventare così pervasivo da coinvolgere non più l'opera d'arte in quanto possibile oggetto di scambio, ma l'intero campo della produzione dei linguaggi e dei comportamenti. A questo quadro complessivo, caratterizzato da un'esasperata accelerazione consumistica, si collegava Crispolti nel presentare il gruppo nel '77, insistendo sulla politica di colonizzazione culturale ed economica di cui era oggetto allora più pesantemente che mai il Mezzogiorno, attraverso l'imposizione di prodotti e di modelli estranei e l'emarginazione degli artisti locali dai circuiti nazionali. «La condizione drammatica dell'operatore culturale ed artistico in particolare nel sud è stata ed è quella di dover combattere appunto per la conquista di uno spazio di possibilità di autoidentificazione e di autonomia. Alcuni hanno preferito una soluzione di abbandono di quella situazione, e sono risaliti al nord o fuori d'Italia altri - i più naturalmente (e fortunatamente) - hanno resistito sul posto, tentando di fondare il senso diverso di un lavoro pur strettamente dialogante con i portati di un'avanguardia internazionale»(3). La sottolineatura del radicamento in questa situazione non contrasta affatto con il riconoscimento dell'attenzione che Geometria e Ricerca rivolge alla riconsiderazione strutturale dei materiali e dei linguaggi della pittura. Un riconoscimento - già avanzato da Finizio nel '79 e ritornato con maggiore evidenza in uno scritto di Menna dell' anno successivo (4) - che vale soprattutto per il lavoro svolto da Riccini in consapevole consonanza con le ricerche della cosiddetta Nuova Pittura e ancor più con quelle francesi di Support-Surface. Mariantonietta Picone Petrusa, nel catalogo di una mostra che ha ricostruito, vent' anni dopo, i fatti e le ragioni che portarono alla formazione di Geometria e Ricerca, si è soffermata particolarmente su quest'aspetto della ricerca del gruppo, la cui posizione risulterebbe nel complesso abbastanza prossima all'area delle "istanze concettuali", ma non certo nel senso di un superficiale adeguamento ad un fenomeno di moda (5). Va notato, infatti, che la Picone Petrusa, rivolgendo la propria attenzione sugli ultimi anni di vita di Guido Tatafiore, segnati dal ritorno alle mostre con una personale allo Studio Ganzerli nel '75 e dall'adesione, l'anno successivo, al gruppo di Geometria e Ricerca, osserva a proposito di alcuni pannelli di legno con scritte in rilievo, che queste sembrano ''mettere in evidenza con una involontaria (o voluta?) ironia una delle principali contraddizioni dell'arte concettuale allora in voga: la materializzazione dei concetti'' (6) . La mia impressione è che il dubbio di Tatafiore s'allunghi sul valore di tutta una linea di rigorismo formale, che toccava certo più da vicino le presunte ricerche logico-linguistiche dei concettuali, ma che forse non lasciava fuori neppure le illusioni del movimento moderno di cui lo stesso Tatafiore aveva sentito il fascino negli anni del dopoguerra, quando si era associato alla dichiarazione Perché arte concreta, del '54, con la quale i concretisti napoletani, sul punto oramai di sciogliersi, avevano riassunto il senso della loro avventura e avevano messo l'accento sui temi cari alla cultura del "razionalismo" moderno. Ora, nei confronti di tutto ciò, che aveva rappresentato certo un momento importante della sua vita, Tatafiore non opponeva un atteggiamento di negazione assoluta, ma un certo distacco, un filo d'ironia fantasiosa che s'insinuava nella corposità delle scritte, nel piacere per una materia antica come il legno - quella stessa che egli, quand'era stato lontano dalla scena artistica, aveva imparato ad usare per la costruzione delle sue barche - e nelle irregolarità e nelle colature del colore.[......]

  1. La mostra è quella che il gruppo tenne nel 1977 all'American Studies Center di Napoli, un anno dopo l'esodio ufficiale avvenuto, sempre a Napoli, nella galleria di Gaetano Ganzerli.

  2. Cfr. L.P.Finizio, L'Immaginario geometrico, cit. (fornisce, insieme con una larga e accurata documentazione, un primo inquadramento dell'attività, allora ancora in corso, del gruppo. Tra i contributi più recenti M.Picone Petrus, Geometria e Ricerca 1975-1980, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli, 8-28 gennaio 1996.

  3. E.Crispolti, presentazione al catalogo della mostra Geometria e Ricerca, Galleria Il Salotto, Como, 21 maggio-3 giugno 1977.

  4. F. Menna, Gruppo Geometria e Ricerca, ''D'Ars'', n. 93, Milano 1980, pp.160-163.

  5. M.Picone Petrusa, Geometria e Ricerca 1975-1980, cit. pp.4-5. Angelo Trimarco, invece, riduce le intenzioni analitiche di Geometria e Ricerca nei termini di un'esigenza mai compiutamente realizzata e considera quella del gruppo '' una vicenda destinata a consumarsi tra le opposte radicalità dell'arte di comportamento e delle ricerche analitiche'', in un momento in cui, per la pressione esercitata da queste radicalità, e non solo dal mercato e dalla critica, c'era '' poco spazio per soluzioni temperate: per il formare e costruire more geometrico'' (ibidem, pp.15-16).

  6. Ibidem, p.11

DAL VOLUME DI VITALIANO CORBI '' QUALE AVANGUARDIA? L'ARTE A NAPOLI NELLA SECONDA META' DEL NOVECENTO'' PAPARO EDIZIONI NAPOLI GIUGNO 2002

Sui bordi dell'astrazione

 

Generazioni

 

Il quadro della ricerca artistica napoletana negli anni Ottanta ed oltre risulterebbe gravemente incompleto, se non si desse il giusto spazio a quella che Crispolti, nel dicembre dell'87, richiamandosi ad una precedente ipotesi di Luigi Paolo Finizio, ha indicato come «una linea di non-figurazione costruttiva». Gli artisti ai quali si riferiva in quell'occasione Crispolti erano, insieme con Barisani, che vi rappresentava l'elemento di continuità storica, Edoardo Ferrigno, Antonio Izzo, Enea Mancino, Gianni Rossi e i più giovani Mario Lanzione e Antonio Malavenda (1). Ma il convenire di tutti questi artisti su posizioni in qualche modo comuni e tuttavia fortemente problematiche finiva col presentarsi nel rapporto con le tendenze prevalenti sulla scena artistica, non solo napoletana, come un tentativo di ribadire la vitalità storica dei linguaggi pittorici genericamente non-figurativi. Tra gli indizi di tale vitalità è da mettere anche una certa capacità di aggregazione degli artisti operanti in quest'area, tradottasi in un numero notevole di iniziative espositive di gruppo, fino a quelle recentissime, tra il '97 e il '99, che hanno riunito Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Lanzione, Manfredi e Spinosa, da una parte, e Ferrigno, Izzo, Mancino e Rossi, dall' altra.

Questa mostra, nata dall'incontro di sei artisti napoletani, diversi per generazione e per formazione culturale, ha molti meriti. Il primo, di tutta evidenza. ma non per questo meno importante, è di presentarsi come una raccolta di opere di così alta qualità da costituire uno dei maggiori avvenimenti espositivi dell'anno e da aver diritto non solo all'attenzione di un largo pubblico, ma anche delle istituzioni pubbliche e dei mezzi d'informazione, che impegnati per ragioni di audience nel promuovere ed enfatizzare gli eventi dell'arte-spettacolo - come ha già osservato Giorgio Segato, curatore, insieme con Nicola Scontrino, della prima edizione di questa rassegna - mostrano invece scarso interesse per i momenti veramente significativi della vita artistica. So bene che la questione ''qualità" delle opere viene di solito considerata troppo generica o ambigua e, in fondo. superata. nella realtà del cosiddetto "sistema dell'arte'', dai meccanismi di selezione regolati essenzialmente dalle leggi del mercato. Mi rendo anche conto che non è questa certamente l'occasione per tentare di sciogliere il complesso nodo teorico sotteso al concetto di qualità artistica, ma, d'altra parte, senza voler deprimere il ruolo delicato ed insostituibile svolto da mercanti e da galleristi, si ammetterà che, in un momento di diffuso ripensamento sul ruolo salvifico del mercato e sulle virtù del liberismo selvaggio, è lecito nutrire qualche dubbio anche sulla opportunità di accantonare la problematicità di quel concetto e di accettare di fatto l'identificazione del valore artistico con il valore di scambio. Lasciamo, dunque, che il riconoscimento di questo primo e fondamentale merito della mostra rimanga affidato alla risposta di quanti vorranno cercare il rapporto diretto con le opere di Barisani, De Tora, Di Ruggiero, Lanzione, Manfredi e Spinosa. E sarà proprio il rapporto con le opere a confermare un altro tratto che caratterizza questa manifestazione: il modo in cui convivono le opere dei nostri sei artisti non ha nulla dell'eterogeneità di tante collettive né della rigidità di certe formule critiche preconfezionate. La convivenza in un unico spazio espositivo indubbiamente esalta quanto di proprio ed originale è nel lavoro di ciascun artista, ma provoca anche l'effetto di un alone comune, di un orizzonte di riferimenti culturali suscitato appunto dall'incontro di esperienze diverse, ma tra loro dialoganti. La vivace e nitida sensazione di un'articolazione per differenze, interna alla mostra, si manifesta in prima istanza, nell'immediatezza cioè dell'impatto percettivo, come variazione tra una pluralità di mondi poetici, come tensione tra la gioiosa, rutilante vibrazione dei colori di Spinosa e la severa ed insieme delicata architettura dei grigi di De Tora, tra la luminosa misura delle superfici pittoriche di Barisani e il dinamismo dei piani trasparenti di Lanzione, tra il sospeso stupore dei frammenti di Di Ruggiero e il coinvolgimento ambientale delle geometrie di Manfredi. Alla base di questa fittissima rete di rimandi c'è l'appartenenza ad una medesima area, non solo geografica ed antropologica, ma anche culturale, qual è quella napoletana. segnata da tempo da forti emergenze creative, indubbiamente radicare nell'humus locale, ma anche alimentate da una circolazione di cultura internazionale. La quale, sarà bene precisare, non si spiega solo con l'attività svolta negli ultimi due decenni da qualche prestigiosa galleria privata, rivolta prevalentemente all'importazione di prodotti talvolta anche di grandi marche, ma selezionati ed imposti sul mercato napoletano con criteri e metodi che hanno poco a che vedere con il confronto culturale. Ci riferiamo invece ad un più ampio contesto di avvenimenti, che risalgono almeno all'avvio degli anni Cinquanta, proprio quando due degli artisti presenti in questa mostra, Barisani e Spinosa, tra concretismo ed informale, davano alla loro esperienza artistica un respiro europeo. All'origine della convergenza, che questa mostra ha saputo felicemente tradurre in un incontro espositivo c'è qualcosa di più della generica appartenenza ad un'area comune. Si tratta di una frequentazione non dico, certo, di gruppo o di tendenza, ma di un versante dell'arte contemporanea per indicare il quale ha forse ancora qualche senso il riferimento all'astrazione. In altre parole, credo che nei confronti di questi artisti non sia criticamente infondato ritornare ad interrogarsi sul senso dell'astrazione, intesa come fascio di molteplici esperienze che nessuno oggi immagina di poter definire univocamente, ma che tuttavia possiedono una loro continuità storica, forse più facilmente rilevabile nella concretezza degli scambi e degli intrecci linguistici che non per una coerente omogeneità teorica, questa sì ben presto frantumatasi - già nelle mani dei padri dell'astrazione, e intendo proprio di Mondrian e di Kandinsky - sotto le spinte opposte di un ontologismo totalizzante e di uno sperimentalismo di matrice scientista, segnato da pretese non meno assolutistiche. Forse ci si chiederà quale valore possa avere questo problema - che sa oltretutto di lontani antagonismi ideologici - oggi, nel clima del 'postmoderno' dominato dal gusto delle contaminazioni, degli impasti di cultura snervati, capaci di riciclare con indifferenza i più diversi ingredienti. La risposta, che non può ovviamente che fare la tara a questa rozza e pasticciata idea di fuoriuscita dalla cultura della modernità e dalla sua dimensione progettuale, in nome di un eclettismo teorico che somiglia troppo ad un'accomodante e cinica resa all'esistente, porterebbe molto lontano. Ci si dovrà contentare qui di riassumerla nell'evidenza direi esemplare del segno di questa stessa mostra, dove ancora appare viva la coscienza dell'importanza di certi confini all'interno dell'arte e della riflessione critica su di essi, con la ricerca di una coerenza espressiva, nel nome appunto dell'astrazione, che consente a questi artisti di avvicinare, senza però scavalcarlo, quel confine al di là del quale le immagini dell'arte acquistano l'illusoria apparenza della realtà e si confrontano direttamente con lo spettacolo del mondo. Qui, invece, nel territorio dell'astrazione attraversato dai nostri sei artisti campani, lo sguardo si sposta dal gioco speculare tra le figure della vita e dell'arte al processo di costituzione di questa. E ciò va detto chiaramente, soprattutto per sottolineare come la bellezza fenomenica persino sensuale di tutti lavori esposti in questa mostra dimostri che l'astrazione non è la strada dell'allontamento dai valori fenomenici, dalle qualità sensibili attraverso cui noi viviamo il nostro rapporto col mondo, e che il suo approdo storico non può essere riconosciuto nella frigidità di certi prodotti concettuali o neominimalisti. Se da una parte la straordinaria flagranza percettiva delle opere richiama prepotentemente l'attenzione sulla qualità visiva dell'immagine, sul suo darsi allo sguardo qui ed ora, non come simbolo trasparente che rimandi ad altro, ma come presenza assoluta ed insostituibile, dall'altra parte s'avverte in esse una costitutiva apertura al mondo: non già nel senso del loro riassorbimento nelle immediate circostanze ambientali. ma in quello della loro capacità di convocare sul proprio orizzonte gli echi di altre espe- rienze, e non solo visive. Rigore formale e bellezza sensuale, intenzionalità consapevole e "mondo della vita" sono i termini tra i quali si svolge la ricerca di questi artisti e la ricchezza dei movimenti, le imprevedibilità degli esiti concreti ci dicono che non si tratta di uno schema precostituito, ma di una tensione che riesce a legare il momento della spontaneità creativa, affondato nelle stratificazioni della soggettività, con quello della dimensione operativa controllata e dell' espressione artistica consapevole, poiché l'intenzionalità che è alla base di ogni autentica progettualità estetica ha le sue radici nella soggettività precategoriale della Lebenswelt o, se mi è concesso un accostarnento di Husserl a Freud, nella regione profonda dell'Es, questa mostra ha una sua storia, che non è ovviamente solo quella dei propositi culturali e delle vicende organizzative da cui è nata. È la storia: degli artisti che vi partecipano: una storia che, attraverso vari passaggi generazionali, prende avvio dal secondo dopoguerra e che, appena pochi anni dopo, come già si è accennato, col concretismo di Barisani e l'informale di Spinosa incomincia già a delineare gli estremi tra cui in seguito essa si muoverà (…..) (Generazioni 2, Catalogo della mostra, Biblioteca Comunale dì Nocera Inferiore, giugno 1997, pp. 5-10)

Gianni De Tora proveniva da esperienze informali e neofigurative quando all'inizio degli anni Settanta si spostò decisamente sul terreno delle ricerche astratte. La partecipazione nel '76 al gruppo Geometria e Ricerca rappresenta il momento di più serrato sviluppo di questa esperienza, nella quale l'artista cerca nella geometria una risposta coerente al problema dell'organizzazione dei segni. Tuttavia, anche quando la ricerca del rigore della forma e la sua quantificazione matematica sembrano diventare prevalenti, De Tora non arriva a considerare la geometria come un modello di linguaggio autoreferenziale, non si accosta, per questa via, alle posizioni della conceptual art. Il suo obiettivo è anzi quello di ''fissare entro un controllo strutturale geometrizzato i termini di una mutazione di natura, infinitamente fluida e sfuggevole'' (2)

In seguito questo riferimento ai processi naturali diventa più diretto. Entro la geometria delle forme, che continua a costituire per De Tora la struttura che definisce e sostiene lo spazio dell'immagine, compaiono momenti di pittura avvivati da una tale fresca reattività cromatica e luminosa da far pensare all'immediatezza d'un appunto sulla natura. E' chiaro che ci si trova di fronte non ad un tentativo di trascrizione del dato reale, ma ad una ricerca di variazioni dell'intensità luminosa degli impasti cromatici, che tuttavia può giungere fino ad evocare qualche suggestiva analogia con la percezione di frammenti del mondo naturale. E ciò avviene con un'evidenza crescente nel corso degli anni Ottanta, quando quei momenti di più libero pittoricismo vanno a collocarsi, come un prezioso reperto, al centro del quadro. Si apre, allora. nell'ampia partitura dei grigi e dei neri, un brano di seducente e capziosa bellezza che sembra voler riproporre la possibilità di un più confidente rapporto della pittura con lo spettacolo della natura. Non proprio, perciò, una gioiosa finestra aperta direttamente sul mondo, ma un quadro nel quadro, un gioco di rimandi che ne rinnova il desiderio. Nella stessa direzione vanno anche le "carte" con la loro ricerca di preziose qualità materiche che avvicinano ancora di più i dipinti di De Tora alla seducente e precaria bellezza delle cose della vita. Non a caso, qualche anno dopo, Pierre Restany ha aperto la sua Ode a De Tora affermando che «non sarà mai totale / il recupero della geometria / una dolce angoscia esistenziale / spalma di miele le prospettive estese alla Rothko»(3). Non si trattava, però, dell'inizio di una manovra di conversione, per lasciarsi alle spalle l'esperienza dei linguaggi astratti. Lo dimostrano le opere più recenti, nelle quali De Tora sembra avere persino rinunciato alla suggestione dell'incontro tra geometria e natura. Si direbbe, infatti, che egli ora sia tornato a giocare la sua partita tutta sul terreno della prima. La finestra si è richiusa, la pittura è tornata a sigillarsi in se stessa. Tuttavia il mito della purezza delle forme geometriche è lontano. A tentare l'artista è semmai la possibilità di scoprire il segreto di altre seduzioni, più aderenti alla pelle e alla struttura dell'opera: e può bastare la sorpresa del passaggio da una zona opaca, ad un lucida della superficie dipinta, di uno scarto nella rigida ortogonalità del quadro, di una leggera asimmetria o di un imprevisto andamento obliquo, quasi uno strabismo della forma, per ritrovarsi coinvolti in un'avventura percettiva lungo i bordi di una geometria rischiosamente sfiorata dai fluire degli avvenimenti.[.....]

  1. Catalogo della mostra Una linea napoletana a cura di E.Crispolti, Pordenone, Palazzo Marchi, 15 dicembre 1987- 20 gennaio 1988

  2. E.Crispolti, presentazione al catalogo della mostra alla galleria Artecom, Roma, novembre 1975

Cfr. Catalogo della mostra antologica nel Museo Civico di Gallarate, 1993

TESTO DI VITALIANO CORBI X CATALOGO MOSTRA ANTOLOGICA “THE WORLD OF SIGNS” AL MASCHIO ANGIOINO DI NAPOLI - 2004

GIANNI DE TORA

LA "DOLCE ANGOSCIA" DELLA GEOMETRIA

 

Ho conosciuto Gianni De Tora nel 1970, in occasione di una sua personale alla Galleria San Carlo. Egli veniva allora da un decennio di intense ricerche pittoriche, avviate, tra il '60 e il '61, con una serie di paesaggi di largo impianto compositivo, che per l'accorta esplorazione dei gradienti luminosi, condotta nel corpo di una densa e morbida pasta cromatica, conservavano qualche memoria della solenne e dolce architettura spaziale di Morandi. Nel breve giro di qualche anno egli, però, aveva ribaltato questo delicato e sobrio pittoricismo tonale nell'aspra matericità di un informale di evidente matrice espressionista, che non incrinava la compattezza della compagine plastica, investendola con la violenza gestuale del segno, ma anzi si serviva di questo come di una spessa e scura linea di contenimento entro i cui argini anche le più incandescenti scaglie di colore erano costrette a riaggregarsi. Le scelte tematiche rivelavano l'interesse del giovanissimo De Tora per le imprese spaziali, ma stranamente le figure degli astronauti chiusi nelle loro capsule spaziali e spinti in primissimo piano, fino a dilatarsi ed acquistare dimensioni monumentali, invece di suggerire una sensazione di dinamismo e di leggerezza, mostravano tutta la loro corposa e greve fisicità. E questa si sarebbe ulteriormente accentuata di lì a poco, in altri dipinti di oli miscelati con sabbia che risucchiavano il dato iconico nello agglomerato materico e ne lasciavano in vista solo qualche enigmatica traccia.

Nella seconda metà degli anni sessanta, Gianni De Tora, accogliendo la spinta dell'immaginario di massa veicolato dalla pop art, ma più ancora sollecitato dalla propria acuita coscienza critica, attenta alla radica1ità dei conflitti sociali e delle contraddizioni della cosiddetta civiltà dei consumi, riconquista il versante della figurazione. Nella personale del 1970, di cui s'è detto all'inizio, fu esposta una serie di dipinti che documentavano questa fase della sua ricerca, giunta al suo momento più maturo e quasi conclusivo. Gli "interni" di questo periodo (si veda, ad esempio, La figlia dei fiori, del 1966, ma anche Telecronache, del 1968) hanno quasi sempre luci fredde e basse, rese più livide dal contrasto con le lunghe barrature rosse che le attraversano, quasi a creare una sensazione di irrealtà o, meglio, a suggerire il loro carattere di immagini virtuali. Ma il fatto più interessante è che mentre qui la scansione geometrica delle superfici cerca appoggio nella forma degli oggetti o nell'architettura dell'ambiente rappresentato, in una serie di altri dipinti, che si spingono fino al 1969, l'elemento geometrico interviene dall'esterno a circoscrivere l'area dei referti iconici e a coordinarli tra di loro, con una logica che è insieme narrativa e simbolica. In queste opere domina il motivo circolare che - come il campo di un obbiettivo fotografico, uno spotlight o un disco segnaletico - isola dal resto della composizione l'episodio su cui l'artista vuole concentrare l'attenzione dello spettatore. Si direbbe che De Tora ricorra a un procedimento del linguaggio pubblicitario per rendere più efficace la sua denuncia dell'orrore della guerra. Ma, in realtà, oggi sono immagini che, sebbene nate da un' esplicita intenzione di protesta, portano un messaggio - e lo scriveva Antonio Del Guercio già nel 1970 - sospeso nella tensione tra "fantasticheria spaziale" e "dolente realtà terrena". Come si sarebbe capito facilmente nel seguito della ricerca, il percorso di De Tora lungo il margine più sgombro della "neofigurazione" segnalava il nuovo senso di marcia che il giovane artista stava imboccando. Egli puntava con coerenza verso un duplice obiettivo: di progressiva depurazione del dato iconico e di rigorosa definizione della struttura geometrica dell' immagine. Ed è, infatti, sorprendente la coincidenza degli schemi compositivi, quasi nel senso letterale della loro sovrapponibilità, che risulta con tutta evidenza dal confronto delle opere "neofigurative" riprodotte nel catalogo del 1970 con quelle "astratte" del catalogo pubblicato tre anni dopo in occasione della mostra nella Galleria Fiamma Vigo di Roma. Arcangelo Izzo ha colto questo passaggio con grande tempestività quando, nel 1973, ha accennato all'interesse dell'artista per il "potere simbolico delle forme e dei colori agenti sulla percezione visiva" e ha sottolineato l'intenzione, allora in pieno corso, "di eliminare il motivo raccontato e di deputare le forme geometriche a rappresentare la tensione interna o a rappresentare le ragioni interpretative, non più imitative, della realtà globalmente e integralmente intuita come fito- bio-zoo-cosmo-antropogeografica"L'astrazione, dunque, in Gianni De Tora nasce all'interno del sostrato figurale dell'immagine, come esigenza - scriverà infatti Enrico Crispolti nel 1975 - di "fissare entro un controllo strutturale geometrizzante i termini di una mutazione di natura, infinitamente fluida e sfuggevole". Il campo di queste mutazioni, che in qualche misura corrisponde alla "realtà globalmente e integralmente intuita" di cui aveva parlato Izzo, costituisce il terreno originario, e mai del tutto abbandonato, da cui muove la pittura di De Tora, anche nei momenti in cui la spinta astrattivo-geometrizzante è particolarmente forte.

Gli anni della partecipazione al gruppo Geometria e Ricerca, durante i quali l'artista individua nella geometria una risposta coerente al problema dell'organizzazione dei segni, rappresentano il momento di più stringente impegno nell'esperienza astratta. Tuttavia, anche quando l'obiettivo della quantificazione matematica della forma sembra diventare prevalente, la geometria non viene considerata mai come un modello di linguaggio autoreferenziale. Per De Tora vale più ancora che per gli altri componenti del gruppo la considerazione che lo spostamento d'accento, rispetto alla tradizione della linea astratto-concreta napoletana, dal ruolo sociale dell'arte alla sua dimensione linguistico-conoscitiva, è tutto sommato un fatto secondario nel contesto della continuità di una posizione che insistendo sulla concretezza del fare arte entrava consapevolmente in polemica con le tendenze comportamentistiche e concettuali dominanti negli anni settanta. Tra i meriti di De Tora e degli altri artisti di Geometria e Ricerca c'è quello di non aver abbandonato il terreno specifico delle pratiche artistiche. Le loro opere, in cui le forme dell"'immaginario geometrico" - per usare l'efficace espressione di Luigi P. Finizio - appaiono felicemente in bilico tra fantasia e spirito critico, documentano una volontà di resistenza culturale al processo di mercificazione, che in quegli anni incominciava a diventare così pervasivo da coinvolgere non più l'opera d'arte in quanto possibile oggetto di scambio, ma l'intero campo della produzione dei linguaggi e dei comportamenti. A questo quadro complessivo, caratterizzato da un'esasperata accelerazione consumistica, si collegava Crispolti nel presentare il gruppo nel 1977, con un testo in cui la sottolineatura del radicamento in questa situazione non contrastava affatto con il riconoscimento dell'attenzione di Geometria e Ricerca rivolta all'esame strutturale dei materiali e dei linguaggi della pittura. Rivedo nello.studio di Villa Faggella, a Capodimonte, le opere che Gianni De Tora ha selezionato per la sua imminente personale nelle sale di Castel Nuovo. Ci sono alcune di quelle realizzate tra il 1979 e il 1980, presentate, tra l'altro, nella mostra che il gruppo tenne allora nel Museo del Sannio e, un paio d'anni dopo, nella personale all'Accademia Pontano, con il titolo significativo "Tra opera e ambiente". Queste opere sono il naturale svolgimento di una ricerca sulle "sequenze primarie" che De Tora aveva avviato da qualche tempo, ma, anche se l'analisi rimane rigorosamente concentrata sulle relazioni tra le variazioni della forma e del colore, entra in gioco, forse per la prima volta in maniera diretta, il rapporto tra lo spazio interno dell'opera e quello ambientale. Circa un decennio dopo Matteo D'Ambrosio avrebbe parlato di "una più consapevole predisposizione alla componibilità ambientale". Ora appare chiaro che il cammino di De Tora non andò nella direzione della ricerca environmental o della pratica sempre più divulgata delle installazioni. Si direbbe, al contrario, che le maggiori conseguenze del coinvolgimento dell' opera nello spazio ambientale si videro nei lavori successivi, e segnatamente nell'effetto d'immersione delle forme nelle circostanze cromatiche e luminose - tutta contenuta, però, entro la spazialità dell'immagine pittorica - che ci restituisce il fascino di una geometria non più struttura portante dell'immagine, ma elemento interno a questa, accanto ad altri elementi diversi e persino accidentali. Una geometria calata nelle familiari, attraenti imperfezioni del mondo fenomenico non solo dialoga con questo, ma è essa stessa cosa tra le cose, avvivata dalla luce, bruciata dalle ombre, spalmata di preziosi spessori materici. Se ne accorse bene Pierre Restany che nel 1984, presentando l'artista agli Arsenali di Amalfi, scriveva nell'incipit dell'Ode a De Tora: ''Non sarà mai totale/ il recupero della geometria! una dolce angoscia esistenziale/ spalma di miele/ le prospettive estese ... ". Nella seconda metà degli anni ottanta muta il registro espressivo della pittura di De Tora. Egli incomincia a mettere in atto un procedimento che direi di accorta levigatura della superficie del quadro. Alla radice di questo procedimento, che sgombra progressivamente il campo dai preziosi frammenti materici che vi si erano depositati, non vi sono intenzioni puristiche, di restaurazione del primato della geometria e dei connessi valori simbolici. Se proprio si vuol parlare di geometria, bisognerà intenderla piuttosto come una sorta di impalcatura scenografica, un largo telaio che tende a coincidere con l'intera superficie del quadro. E' una solenne e severa architettura di grigi e di neri nella quale si apre una finestra di luce, da cui penetra, nel quadro, un frammento della precaria bellezza della vita. Nel 1991 Pierre Restany, che è stato l'interprete più sensibile di questo momento, dopo aver descritto la natura scenografica dell'universo di Gianni De Tora, osservò che "i protagonisti dei suoi quadri-teatri sono il colore e lo spazio generato dalla pittura". Non divergono da questa indicazione gli appunti di Gillo Dorfles, che nel 1998 coglieva segnali di deroga "alla inflessibile costruzione della 'simmetria' (quella che William Blake definiva la 'fearful symmetry') e del rigorismo geometrico". E può bastare, allora, l'accostamento dì una zona di nero o di grigio opaco ad una zona lucida, uno scarto nella rigida ortogonalità del quadro, un imprevisto andamento obliquo, per disporci, lungo i bordi di questa geometria rischiosamente coinvolta nel fluire della vita, all'imbarco per una nuova avventura dei sensi e della fantasia.

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